Terza Natura: Letteratura, Natura e Scienza a confronto. Chi o che cosa ci salverà dalla sesta estinzione di massa?

Terza Natura: Letteratura, Natura e Scienza a confronto. Chi o che cosa ci salverà dalla sesta  estinzione di massa?

di Maria Immacolata Ventola

Il saggio che vorrei presentarvi attraverso la mia analisi è La letteratura ci salverà di Carla Benedetti (Einaudi, Torino, 2021), con cui l’autrice intende immergere la funzione salvifica della letteratura nella postmodernità. Quella che ci ritroviamo a vivere oggi è  una civiltà sempre più artificiale, in cui il progresso industriale e il miracolo economico si fanno sempre più  tentacolari e alienanti e il cui portato di innovazioni tecnologiche sta sempre più destabilizzando i modelli cognitivi dominanti, tanto che artificiale e naturale si fondono in organismi assolutamente inediti e sempre più avanzati; essi, attraverso i loro prodigi, promettono performatività ineccepibile, eterno sviluppo delle specie umana e quasi l’immortalità del genere homo. Siamo ormai intrappolati nel metaverso, uno specchio nero, deformato e distopico della realtà concreta. Viviamo in un esautoramento di senso e direzione valoriale e sembriamo aver smarrito il senso più profondo di comunità e di una progettualità sociale. La tecnificazione che ci circonda ha ormai decentralizzato l’uomo e la sua agibilità, a favore di una capacità di pensiero prodotta in serie: meccanica, veloce, efficiente.

E così, abbagliata dal proprio egocentrismo e da una cieca fiducia nelle proprie capacità, la specie umana dimentica di dover fare i conti con una traiettoria temporale limitata su di un pianeta – anch’esso – dalle risorse limitate. L’errore sottile che, fomentato dalla spregiudicatezza capitalistica, l’uomo ha sempre commesso è stato il godimento immediato e a tutti i costi in ogni ambito della propria esistenza, da quello più intimo e relazionale a quello pubblico sino alla sfera dei consumi materiali (cfr. Luigi Cavallaro, Giurisprudenza. Politiche del desiderio ed economia del godimento nell’Italia contemporanea, Quodlibet Studio, Macerata, 2015). Sembra quasi che preservare un ambiente il più possibile equilibrato, in cui natura e uomo possano convivere armoniosamente, sia il capriccio degli ambientalisti più anarchici e rivoluzionari; in realtà, questo è il presupposto della nostra stessa sopravvivenza come specie perché, se ciclicamente il Pianeta è stato attraversato da diverse condizioni biologiche e da tantissime altre specie – di cui alcune ormai estinte –, è palese che esso possa sopravvivere senza la nostra specie, mentre quelle attuali sono le incredibili condizioni di vita perfettamente adatte al genere homo, che non si ripeteranno mai più e che noi stessi stiamo distruggendo (cfr. Alan Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino, 2017).

Fatta questa doverosa premessa, ecco che la nostra autrice si pone due interrogativi:

1.     perché gli esseri umani continuano imperterriti a negare la crisi climatica?

2.     o, al contrario, perché la consapevolezza del degrado che attraversiamo ogni giorno porta all’inibizione di qualsiasi atto che possa rallentare la distruzione entropica del nostro pianeta?

Si tratta di una rimozione, un meccanismo difensivo determinato dal nostro senso di impotenza. Se l’uomo è, dunque, incapace di empatizzare con le generazioni future, ecco che l’autrice chiama in causa un concetto che sembra non aver assunto una particolare risonanza nelle coscienze umane: ciò che Gunther Anders in L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (Bollati Boringhieri, Torino, 2007) definisce “principio di responsabilità” attraverso un rovesciamento temporale, mettendoci di fronte al fatto già compiuto. Il diluvio universale, che è la metafora del nostro pianeta in distruzione, si è già compiuto. Siamo così catapultati fuori dall’alveo del tempo storico in cui siamo abituati a percepirci e si apre un altro e spiazzante orizzonte temporale: quello delle ere geologiche – un tempo di specie, un tempo cosmico, un tempo in cui può persino darsi che noi uomini «non siamo mai esistiti» (C. Benedetti, op. cit., p. 56), dal momento che potremmo anche non esistere più.

Sono le voci degli sconfitti, di coloro che non sono riusciti a arrestare la catastrofe della distruzione, che già arrivano da un mondo che è stato ormai distrutto. Eppure, anche se sconfitte, anche se disperate, restano inconciliate e ribelli e, ancora oggi, sconvolgono chi le ode. Esprimono una resistenza non perché propongono modi di resistere al potere – che del resto li ha già schiacciati – né perché il dolore si trasforma in rivolta, ma perché tengono vivo il senso di intollerabilità per ciò che è già accaduto. Lo tengono vivo per sé e per noi che le ascoltiamo.

Benedetti, insomma, riduce i nostri margini temporali di civiltà e apre a uno scenario inedito che è l’ammissione di un Essere superiore, che in Apocalisse fa raccontare a Giovanni la distruzione del mondo – e forse non un caso che il cambiamento climatico renda quasi percepibili le fiamme infernali –, quel Mistero che sorregge il mondo, di cui spesso ci dimentichiamo, presi dalla nostra onnipotenza.

In tal senso la letteratura può, non in virtù di una superiore e taumaturgica sapienza, ribaltare tale processo, rispondere all’inazione degli uomini di fronte alla perturbante catastrofe naturale, facendo in modo che la capacità empatica si estenda oltre all’oggi.

Ammettere l’esistenza di qualcosa o Qualcuno al di sopra delle possibilità umane non segna il nostro destino, non implica la necessaria rassegnazione a una fine già scritta: anzi, ci permette di protenderci verso la salvezza escatologica e soprattutto ci permette di recuperare la narrazione epica, il senso di collettività non solo tra uomini, ma tra tutti i viventi per conferire ancora dignità alla propria esistenza.

Dunque, pensare di poter salvare il mondo significherebbe – ancora una volta – peccare di tracotanza, non aver capito nulla della nostra tragica esistenza. La soluzione non solo più plausibile, ma soprattutto necessaria è ammettere l’apocalisse e riuscire – tanto per dirla con Calvino – a rendere “l’inferno dei viventi” più sopportabile, mentre ci accingiamo alla sesta estinzione di massa: quella del genere umano. È, tuttavia, proprio questo l’audace compito cui la letteratura e i letterati, in quanto possessori di quel movimento di urgenza espressiva che è la creatività, sono chiamati: un mestiere gravido di difficoltà e impedimenti, perché questo non è un mestiere che si svolge, ma che ti svolge.

Concludo con una citazione del Professor Daniele Maria Pegorari, che durante il nostro primo incontro come membri di ControVerso diceva (vado a memoria):

La letteratura non serve: nutre. In primis noi stessi e poi ciò che ci circonda.

La realtà sembra svuotare i nostri serbatoi ed ecco che la letteratura li riempie: ci dà forza per resistere, per continuare a fare del nostro meglio, anche quando tutto sembra crollarci addosso.

Bisogna continuare a seminare, bisogna assumersi la responsabilità della propria esistenza.

ControVerso è anche questo. ControVerso è, soprattutto per me, la cariola del macigno che mi porto nel cuore, in un mondo che mi sembra sempre più disgregato, faticoso, doloroso, ingiusto e violento, in cui spesso ci si arrocca in una difesa ipocrita di valori che non trovano applicazione nella realtà più verace e, spesso, dimenticata. ControVerso è il luogo in cui la parola si incarna.

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