La letteratura che resiste

La letteratura che resiste

di Rossana Berardi

Negli anni della post-modernità che senso ha la letteratura? Conserva ancora quella sua capacità di resistere e di affrontare in maniera positiva gli eventi traumatici? Nel saggio La letteratura come vita Carlo Bo scriveva che la letteratura è la vita stessa, la parte migliore e vera della vita e che essa tende all’identità (C. Bo, La letteratura come vita, 1938). Ma nella società post-moderna in cui tutto è liquido, anche l’identità, la letteratura può conservare ancora queste caratteristiche?

Kublai ne Le città invisibili scopre che c’è un momento disperato della vita in cui ci si rende conto che l’impero che sembrava la somma di tutte le meraviglie in realtà è solo uno «sfacelo senza fine, né forma» (I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Torino 2022, p. 5). Allo stesso modo noi, oggi, ci rendiamo conto di quanto il nostro mondo somigli tragicamente a Leonia, la città degli scarti, rifiuti che diventano sempre più resistenti e difficili da smaltire. Leonia rifà se stessa tutti i giorni, ogni mattina si scartano nuove confezioni perché tutto è costantemente fabbricato, venduto e comprato, è la città dell’opulenza che si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via. Una città anoressica – applicando le due categorie individuate a livello sociologico da Baudrillard, anoressia e bulimia – i cui abitanti non arrivano a consumare gli oggetti perché sono portati subito ad espellere, a gettare via. Così come il soggetto anoressico si autoconvince di non aver bisogno di niente e infatti non appena ingerisce cibo sente subito il bisogno di espellerlo, la passione di Leonia è «il mondarsi d’una ricorrente impurità» (I. Calvino, op. cit., p. 111), con un evidente e drammatico risvolto sul piano ecologico perché il processo di smaltimento non è così rapido come quello di scarto. Potremmo immaginare l’uomo seduto al centro di un’enorme discarca, può restare indifferente a guardare i disastrosi cambiamenti o resistere e cercare il fiore nel deserto. 

«Le magnifiche sorti e progressive» (G. Leopardi, La ginestra, in Canti, Bur Rizzoli, Milano 2021, p. 594) è l’espressione utilizzata ironicamente da Leopardi, alludendo a quella facile fiducia nei confronti del progresso e della storia. Il progresso, infatti, presenta il suo rovescio negativo, lo aveva già intuito Leonardo da Vinci che non avrebbe mai voluto mostrare alcune delle sue invenzioni poiché macchiate da un peccato di hybris tecnologica che avrebbe definitivamente spezzato il legame tra l’uomo e il cosmo, fondato sul sentimento panico della meraviglia e dell’ebrezza (G. Cuozzo, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamin a Wall-E, Moretti & Vitali, Gorgonzola 2013). Tutto questo ha permesso di raggiungere scopi estranei e ostili alla natura stessa: in una società come la nostra in cui il processo di scarto è all’ordine del giorno – il vecchio modello viene scartato a favore di quello nuovo – l’intelligenza artificiale consente di creare nuove aziende capaci di dare vita a un nuovo prodotto in meno di cinque minuti. L’happy ending di questa fiaba, afferma Gianluca Cuozzo, potrebbe essere «E vissero felici e contenti tra le proprie scorie» (G. Cuozzo, op. cit., p. 19), perché la forma definitiva di Leonia è «quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altro ieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri» (I. Calvino, op. cit., p. 112). È per questo che gli spazzaturai sono accolti come angeli, avvolti quasi da una dimensione sacra, il cui compito è spostare i rifiuti fuori dalla città. Insieme agli oggetti si scartano desideri, pensieri, emozioni, ricordi: tutto ciò che potrebbe alterare il nostro mondo fatto di icone oggettuali di successo e ritornelli ossessivi viene spostato in spazi di confinamento. Ogni giorno gli spazzaturai riconfermano quel confine tra accettato e rifiutato, normalità e patologia, città e periferia, città e discarica, tutelando l’ordine e la prevedibilità della normalità. Lo spazzaturaio ha l’aspetto dell’angelus novus rappresentato da Paul Klee in un acquerello: meccanico, stilizzato, che spinge l’osservatore a chiedersi se l’angelo stesso annunci una sciagura compiutasi o una salvezza nascosta (T. W. Adorno, Impegno, in Note per la letteratura 1961-1968, Einaudi, Torino 1979, pp. 89-110). Quasi un uomo vitruviano espressione di una realtà sempre più complessa e sempre meno armonica. Walter Benjamin lo descrive nella IX tesi di filosofia della storia come un angelo «in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo», triste, melanconico, carico di pietas nei confronti delle umane sorti, davanti al quale si accumulano le macerie della storia. Vorrebbe fermarsi, «destare i morti e ricomporre l’infranto» (W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014), ma la tempesta del progresso è imbrigliata nelle sue ali e lo spinge con forza a ritroso verso un futuro che non conosce. L’angelo guarda le rovine dell’accadere storico, speranze, ideali, aspettative disattese, l’incompiuto, un enorme immondezzaio dove viene raccolto tutto ciò che non ha avuto mai luogo sulla terra perché il progresso è una tempesta, che è vero spira dal paradiso, ma non fa altro che spezzare gli ideali. Sembrerebbe unicamente l’annuncio di una catastrofe già avvenuta, ma c’è una salvezza nascosta: dagli scarti, dalle macerie si può tirar fuori ancora qualcosa di positivo, una possibile forma di contestazione, di resistenza, un’utopia pulviscolare, direbbe Calvino nel saggio intitolato Commiato. L’utopia pulviscolare. La letteratura, allora, conserva ancora una sua funzione, perché il legame con la tradizione è inevitabile, un’ecologia dei frammenti della storia che può dare consistenza a questi frammenti, testimonia la possibilità del possibile, un segno di vita in mezzo al mare (D. M. Pegorari, Letteratura liquida, Manni, S. Cesario di Lecce 2018, p. 163). È il messaggio che mette in scena Andrea Cramarossa nel suo personalissimo omaggio a Calvino, Il castello, quando uno dei personaggi recita: «Siamo solo personaggi, non siamo mai esistiti, ma la letteratura è l’unica capace di cambiare questo mondo». Questa forma di resistenza deve però fare i conti con l’omologazione, con le manipolazioni mediatiche e finanziarie alle quali è sottoposto il libro stesso in quanto prodotto industriale: non è il lettore che sceglie il libro, ma il libro che sceglie il lettore attraverso processi di indirizzamento verso un determinato pubblico. Il lettore è quello descritto da Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, non si aspetta più niente, è svuotato, in piena crisi post-moderna. Il primo passo allora, è raccontarlo questo mondo, investigare le vicissitudini umane, tenere conto di un’emergenza che non è solo ecologica, ma anche antropologica, occorre comprendere le dinamiche della città, forma spaziale dell’organizzazione delle masse, gli ostacoli che la classe inferiore globale deve affrontare. I rifiuti del libero scambio e del progresso economico vengono condannati a un destino che non ammette socialità, descritti da Bauman come la feccia che rimane sul fondo di una soluzione chimica saturata da una sostanza e tale sostanza è la nostra società fortemente individualizzata (Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma 2006). L’individuo è sotto assedio, il concetto di individualità non ha più il significato di indivisibilità (dal latino in-dividuus, non divisibile), a prevalere è l’idea di individualità come originalità, essere unico, diverso dagli altri e il consumismo punta proprio su questo, associando il desiderio di un determinato prodotto all’unicità. Individualità è allora omologazione, il conformismo il migliore amico dell’individuo: chi ha capitale rientra nella società individualizzata, gli altri sono tragicamente condannati a essere consumatori difettosi.

In controtendenza rispetto alla società individualizzata e autoreferenziale, non più abituata a costituire gruppi organizzatati o movimenti letterari, nel 2010 Guido Oldani ha lanciato una sfida costituendo un vero e proprio movimento letterario, Il realismo terminale. Il cuore del manifesto è il rapporto uomo-oggetto attraverso un excursus di storia letteraria a partire dal Futurismo, quel movimento letterario che ha conferito agli oggetti un ruolo tecnico, un’effervescenza ottimistica a discapito della memoria storica che rischiava di ridurre l’uomo a una mano che gira la manovella. Gozzano, invece, aveva intuito il potere degli oggetti di creare uno status, un’identità, quella borghese: le «buone cose di pessimo gusto» (G. Gozzano, I colloqui, OMBand D. E., Torino, p. 49) non sono altro che oggetti di poco valore con pretese di eleganza, riproduzioni seriali dell’aristocrazia di un tempo, il kitsch del presente contrapposto all’eleganza del passato. Si giunge poi alla nostra «Era Attuale» (G. Oldani, Il realismo terminale, Mursia, Milano, 2020), p.14), il terzo millennio, il post-umanesimo, momento a partire dal quale si è modificata la percezione della realtà. «Non più un aereo somiglia a un gabbiano, ma viceversa, per sempre sarà il viceversa» (ivi, p. 16) perché la natura è ormai azionista di minoranza, nel nostro immaginario è più forte la presenza dell’artificialità, un processo irreversibile che decreta la definitiva sconfitta dell’umanesimo. Nell’era della dittatura dell’oggetto la realtà è costituita da poca natura e tanti oggetti e Oldani potrebbe tranquillamente parlare di «oggestismo terminale» (G. Oldani, op. cit., p.17). Si è verificato ciò che Calvino aveva previsto, Cecilia è dappertutto, le città non sono più «luoghi senza foglie che separano un pascolo dall’altro» (I. Calvino, op.cit., p.148), della natura non resta che l’erbetta vicino lo spartitraffico. L’umanità è prevalentemente urbanizzata, come afferma Oldani, perché la speculazione edilizia ha reso gli spazi tutti uguali, i viaggi ci conducono in città che ci sembra già di conoscere, il viaggiatore si sposta da Trude a «un’altra Trude», distinguibili solo dal nome dell’aeroporto (I. Calvino, op. cit., p.125). I luoghi si sono mescolati o addirittura trasformati in «nonluoghi» in cui non c’è tempo e spazio per fermarsi, una frenesia che non ammette bagagli pesanti, carichi di rovine e scarti della storia (M. Augé, Straniero a me stesso, Boringheri, Torino 2011). Bagagli leggeri corrispondono a identità leggere, generando a livello umano una crisi identitaria, un senso di smarrimento, l’uomo continua a spostarsi in un labirinto infinito senza mai trovare via d’uscita. Pentesilea ci insegna che non dobbiamo immaginare accoglienti ingressi di città, porte di accesso, confini netti e rassicuranti, ma una «zuppa di città diluita nella pianura» (I. Calvino, op. cit. p. 152). Non c’è un inizio e una fine, siamo «nel rizoma della post modernità» (D. M. Pegorari, Città al tramonto. Calvino e la fine di un’immagine utopica, in «Logoi», VII, 19, 1 marzo 2022). Il realismo terminale è una poetica che guarda a questa realtà, forse l’ultima possibilità di rappresentazione. Viviamo al tempo delle invasioni barbariche e i barbari non sono persone – gli Unni o i Goti – ma gli irresistibili oggetti (I. Calvino, I beatniks e il «sistema», in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980): identificano l’uomo («Dimmi che oggetti hai e ti dirò chi sei» è ormai un trend), vengono catapultati sugli eredi dal diritto di successione poco dopo un lutto, rendono l’uomo esso stesso un oggetto i cui desideri, come nella città di Anastasia, sono prevenuti, indotti, privi del piacere dell’attesa, di quella coincidenza tra desiderio e funzione. Gli oggetti possono rappresentare una consolazione o addirittura un’alternativa a legami autentici. È ciò che accade alla coppia protagonista del primo dei due racconti di realismo terminale che qui propongo, La bambola (da una favola giapponese) di Salvatore Ritrovato: il vuoto incolmabile prodotto dall’impossibilità di avere figli rende i due coniugi fragili, vulnerabili, incapaci di instaurare relazioni autentiche. L’unica consolazione è rappresentata da una collezione di bambole, oggetti che non a caso riproducono le sembianze umane. Una delle bambole cattura l’attenzione della donna, le «sembrava una bambina pronta a muoversi e a parlare» (D.M. Pegorari (a cura di), L’occhio di vetro. Racconti di Realismo terminale, Mursia, Milano 2020, pp. 123-129), umanizzata a tal punto da riuscire a placare i litigi e trasformare quel desiderio di essere genitori in un ricordo lontano. Dopo la morte del marito, la donna viene ricoverata in un ospizio e ormai sul finire dei suoi anni, riflette guardando quell’oggetto invecchiato insieme lei. Il processo di umanizzazione degli oggetti e disumanizzazione dell’uomo la induce a pensare che forse sarebbe stato meglio vivere una vita da cosa, senza lacrime, per sempre una bambola, un’eterna bambina.

Stefanie Golisch in Coltellino svizzero, prosa dai tratti poetici, racconta invece dell’evoluzione dell’inetto novecentesco, il vigliacco, il vero antagonista del bene, un personaggio insipido, sfuggente, del quale è impossibile ricordare i tratti perché cambiano continuamente a seconda della necessità, proprio come un coltellino svizzero, quell’oggetto capace di adattarsi a diverse funzioni. Il vigliacco ama seguire la massa, stare in branco perché questa è l’unica dimensione in cui riesce ad affermarsi, ha perso la volontà perché ha trovato una strada più semplice, adeguarsi alla maggioranza che ha sempre ragione. Solo urlando quello che tutti urlano, picchiando quello che tutti picchiano, non si rischia di perdere una sola partita (D.M. Pegorari (a cura di), L’occhio di vetro. Racconti di Realismo terminale, cit., pp. 68-72). 

È necessario raccontare questa realtà perché rappresenta l’unica possibilità di ricomporre l’infranto e non lasciare che la tempesta si porti via tutto: resistenza è raccontare una storia, avere una buona storia, restituire al lettore la possibilità di guardare dentro sé stesso, riflettere, ritrovare il senso delle parole in un’epoca in cui sembrano essersi svuotate di senso. Una letteratura che vuole resistere non può tralasciare nessun frammento, nessuno scarto perché è il dettaglio che fa la differenza. Il piccolo lembo di muro giallo che lo scrittore Bergotte, personaggio proustiano, prima di morire, nota nel dipinto La veduta di Delft è quel particolare che rende preziosa, unica e soprattutto immortale l’opera: «È così che avrei dovuto scrivere» le sue ultime parole (M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Torino 2021, p. 1492).

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