«Bestie da confessione». La liberazione della sessualità secondo Foucault

 

   

«Bestie da confessione». La liberazione della sessualità secondo Foucault

di Elvio Carrieri

Siamo repressi. Sì, ma quanto lo siamo? Sì, ma perché lo siamo? Un discorso, basta questo. Non si vuole arrivare al discorso? Basta un’incitazione. Sì, ma pianissimo, di nascosto. Eccola, l’anima bistrattata, l’ipotesi repressiva: ne siamo vittime o possibilmente carnefici, il fatto è che ancora non lo sappiamo. Un biografo statunitense di Michel Foucault ci dice che:

«[Foucault] avrebbe continuato a fare sesso con partner sconosciuti anche dopo la diagnosi da sieropositivo e senza prendere alcuna precauzione».

Tutto, pare, ‘sto filosofo, fuorché una vittima dell’ipotesi e della scientia sexualis. Vien da chiedersi come sia possibile che nelle 144 pagine di “La volontà di sapere, Storia della sessualità. I” non vi sia tanto un naturale accanimento nei confronti della repressione, quanto più maestria nel provocarne l’evanescenza. Foucault ci insegna una grande lezione di retorica: vuoi disdegnarla, questa repressione? Falla sparire. Ma con classe. E con dati storici alla mano. Questo succede nel volume, edito in Italia da Feltrinelli, e uscito nel 1976 in una Francia satura di post - strutturalismo che accoglie accademicamente una lezione che, paradossalmente, viene proprio dall’Accademia. E allora, ‘sto Foucault, che fa? Forse mi prende in giro? Dov’è finita la critica al dispositivo, al potere microfisico, se poi proviene dalla cattedra dell’Accademie de France? In altri termini, quanto c’è di realmente eversivo nel testo, e a grandi linee nel pensiero foucaltiano sulla sessualità? La questione è inflazionata, retorica. C’è da fare un passo indietro. Il volume si inserisce in un più ampio campo di studi foucaltiani sulla sessualità e sul potere, che a partire dal 1976 si andranno a concludere postumi solo nel 2018, con la pubblicazione del quarto e ultimo “Les aveaux de la chair” per lo storico editore Gallimard. L’equivoco nasce dal fatto che sei anni addietro, nel 1970-71, Michel Foucault teneva un corso all’Accademie de France intitolato esattamente “La volontà di sapere”, che nulla o quasi aveva a che fare con la sessualità e viaggiava tra i banchi di una grande istituzione. Da qui nasce la polemica, già indagata da Andrea Muni in “Foucault, Nietzche e La volontà di sapere” che vede un Foucault semi compromesso da un’istituzione che in fondo egli stesso profondamente critica. Siamo lontani dal discorso sulla repressione sessuale che verrà sei anni più avanti, eppure le premesse metodologiche di questo «lavoro ad ampio respiro, […] mutevole» (M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli 1976, prefazione) che pretende di far piazza pulita di dispositivi paiono già, come si dice, “impure”. La questione, ci sottolinea Muni, in realtà è faziosa. Va ammesso e compreso che Foucault utilizza il College de France come theatrum philosophicum nel quale è doveroso instaurare quel «gioco perverso» che è la volontà di sapere. Una sorta di, per essere sbrigativi, infiltrato interno del pensiero. Ancor più paradossale sembra la situazione se calata nel contesto della querelle Foucault-Derrida, nella quale il primo accusava il secondo di «collaborazionismo con i discorsi del padrone lacaniano» (A. Muni, Foucault, Nietzche e La volontà di sapere). Padrone che, chiaramente, rappresentava nient’altri che l’università. Padrone che, paradossalmente, pagava lo stipendio a Foucault. Ecco, Muni sottolinea come in realtà il lavoro di Foucault portasse con sé un segreto intento politico, quanto il filosofo instaurasse con le sue lezioni un’operazione isterica e carnevalesca che si proponeva di scartavetrare il principio primo che sorregge l’intera storia del pensiero: quello che associa, con assurda pretesa di connaturalità, la conoscenza, la verità, e il desiderio. Ma questa, in fondo, è solo una premessa metodologica che serve a chiarire quanto le posizioni di Michel Foucault possano essere travisate a seconda di chi legge e di quanto intenda contestualizzarle nel contesto biografico dell’autore. E, se dobbiamo proprio dare un sugo a questa storia, allora probabilmente va ricordato che Michel Foucault, dal 1970 fino al resto della sua vita come professore accademico, ha fatto uso di quei corsi, di quella polemica con Derrida, di quell’iper - accademismo per poter dare vita al suo ultimo, magniloquente e glorioso ciclo di studi: quello sulla storia della sessualità, inaugurato nel 1976 con il titolo, ancora, di “La volontà di sapere”.

Ci avverte allora che questa sessualità, in realtà, è solo un capro espiatorio. È un problema, scrive Foucault, che insegue - o che lo insegue - da circa quindici anni. E si tratta di discorsi, di produzione di verità in relazione al potere e alle istituzioni, non di sesso. - Ma noi - esclamiamo già piegati e lubrificati - Noi vogliamo il sesso! - . Va bene, dice Foucault. Ma allora, perché mai siamo repressi? Non siamo noi la generazione che, come ci insegna il manipolo di sessuologi, andrologi, urologi, influencer della body positivity e sponsor di vibratori online, il sesso l’ha liberato? Non siamo noi, Millennials, Gen Z, Baby boomer sessantottini, insomma non siamo noi che abbiamo dato finalmente alla sessualità lo spazio che si meritava? Ma come, non siamo noi quelli che ne hanno svelato l’essenza tramite i nostri discorsi, la nostra aura di positività costante, la nostra costruzione retorica in un ambiente sempre sicuro e mai ostile? Foucault ci riderebbe in faccia e ci direbbe che no, siamo solo un momento del dispositivo. E cadrebbero, come già le si vede fare, le labili e grottesche convinzioni identitarie di metà social. - Ma se non sono il liberatore/la liberatrice del sesso, allora chi sono? -. Anche questa domanda, ci racconterebbe Foucault, fa parte di un dispositivo. Abbiamo chiesto al sesso chi siamo, ne abbiamo fatta la nostra cifra identitaria. Non c’è da dilungarsi sulle innumerevoli prove storiche che Foucault presenta per dimostrarci che, se facciamo cadere per un attimo la maschera da narcisisti liberatori, la storia ci ha anticipato di circa quattro secoli. E vengono così fuori i primi indizi nei manuali del buon confessore risalenti alla Controriforma, in cui il sesso non va nominato imprudentemente, ma al confessore va detto tutto, come ci ricordano Sanchez e Tamburini:

«Posizione rispettiva dei partner, atteggiamenti assunti, gesti, toccamenti, momento esatto del piacere - tutto un percorso meticoloso dell'atto sessuale nella sua stessa operazione.»

(M. Foucault, La volontà di sapere, p. 20)

Foucault si concede umorismo: sembra di rileggere un Sade che alla fine non fa altro che rilanciare l’ingiunzione ecclesiastica della confessione dettagliata, scrive.Vengono fuori la pedagogia e il movimento filantropico tedesco di Basedow. Addirittura Saltzmann organizza nel 1776 un vero e proprio certamen del sesso al “Philantropicum”.  Poi, ancora, il povero contadino della Lorena che nel 1867 paga una ragazzina per poche carezze (“il gioco del latte cagliato”) e non solo viene denunciato, ma ispezionato, patologizzato, indagato nelle sue minime pulsioni, e solo alla fine sbattuto come si deve in manicomio: l’ironia della storia ha voluto che questo contadino si chiamasse Jouy. Foucault ci spiega che il carattere minuscolo di questo evento è ciò che lo rende fenomenale, il fatto, cioè, che attorno a questo “semplice di spirito” si sia creato un apparato medico-giuridico e discorsivo che lo ispeziona come un caso di studio. E poi ancora si punta il dito contro questa medicina, questa scientia sexualis che non lascia tregua al piacere, e in un j’accuse incandescente vengono additati i medici, gli psichiatri, gli educatori che nell’epoca di un positivismo iper settorializzato hanno macchiato il sesso di una produzione discorsiva ingenua, oltre che razzista: Garnier, Pouillet, Ladoucette in Francia, e ancora Campe, Salzmann, poi soprattutto Kaan, Krafft-Ebing, Tardieu, Molle, Havelock-Ellis; e in ultima istanza Charcot, che ancora oggi è venerato in territorio francese per le sue scoperte visionarie come la SLA, la sclerosi multipla e la CMT, ma buon per lui dimenticato per le crisi d’isteria che volontariamente induceva nelle sue pazienti col nitrito di amile alla Salpêtrière di Parigi, che in suo onore gli dedica la “cattedra Charcot”, prima al mondo per le malattie nervose.

Costoro altro non fanno che dare la caccia alle “sessualità periferiche”, individuarle, isolarle e inserirle in un più ampio discorso su quella che diventerà una problematica di igiene pubblica, di discendenza. Di qui i razzismi di stato, le associazioni “sesso-degenerescenza”, gli strumenti che la borghesia, sfruttando l’arma della confessione tanto cara al nostro Occidente, utilizzerà per sostituire a una “simbolica del sangue”, propria della nobiltà, un’”analitica del sesso” con cui affermare la propria egemonia. Non gli si può negare, a ‘sto Foucault, che il dato storico non vada a suo vantaggio. Tutto ciò ci fa intendere che, forse, il potere che noi associamo al divieto non stia agendo nei termini di una censura, semmai di una assertiva e assolutamente scientifica ingiunzione discorsiva: orrore per le nostre orecchie, perché pian piano ci avvicina alla triste realtà nella quale il nostro compito di partigiani della sessualità non assume che una minima, infinitesima parte nella più ampia storia del dispositivo di sessualità. Dispositivo che Agamben ha allargato all’infinito: tutto è dispositivo. Perlomeno tutto ciò che influenza il comportamento umano. E quindi non solo, elenca Agamben, il sesso, la prigione, la caserma, il Panopticon; no, ma anche la sigaretta, l’automobile, il telefono, i social e il linguaggio: dispositivo originario, momento in cui il primate si caccia da solo in una spirale di problemi senza fine. Ciò che preme sottolineare in fondo è che credersi padroni della sessualità, e dunque dei discorsi di verità che ossessivamente produciamo su di essa, è semplicemente ridicolo. Non siamo, dichiara Foucault, altro che una società che ha trasformato la scientia sexualis in una nuova ars erotica, costretti dalle nostre abitudini a non poter inventare nuovi piaceri e a crederci oggi coloro che hanno liberato il sesso dalla repressione antica, che di fondo - se e quando c’è stata - non era altro che un movimento controllato del dispositivo. Noi che tra un reel sulla body positivity e un altro sulla vulvodinia ci pensiamo al centro di un grande meccanismo di liberazione, in fondo, rimaniamo pur sempre ciò che siamo sempre stati in quanto occidentali, per dirla alla maniera di Foucault: “bestie da confessione”.


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