L'immaginazione: un percorso tra Tolkien e Calvino

 L’immaginazione: un percorso tra Tolkien e Calvino. 

di Maria Guglielmo

Le parole hanno un potere evocativo. La parola modernità richiama, tra le altre cose, ad una fiducia incrollabile nei confronti della Storia, della crescita economica, di una scienza che non ha limiti. 

Così, quando queste promesse di grandezza sfociano in tragedia e, parallelamente, l’influenza materiale e sociale nella realtà in cui viviamo si fa progressivamente più massiccia, tutto giunge a nuovi confini (o s-confini) e inizia a gemmare una nuova antropologia che poniamo sotto il nome di postmodernità. In cerca di un punto di vista che si faccia superficie d’attrito, l’arte cerca di tracciare ‹‹sulla pagina del mare […] un segno di vita›› (M. Luzi, La notte lava la mente in Onore del vero, Neri Pozza Editore, Venezia, 1957) e di essere testimonianza di una rigenerazione possibile della possibilità. 

Quanto segue è un tentativo, seppur ridotto, di evidenziare un atteggiamento comune a due autori – a me molto cari – che fanno della fantasia, dell’immaginazione, il loro spazio di resistenza: Italo Calvino e J.R.R. Tolkien. La resistenza leggera di questi due autori non deve – però – essere letta come escapismo, essa parte da un’osservazione attenta del reale e dei suoi bisogni.

Il Professore appoggia quanto E.M. Forster scrive nel 1910 – l’Inghilterra non ha una propria e grande mitologia – e individua nell’invasione normanna l’origine di questo fenomeno. Le virtù normanne di efficienza, burocrazia e razionalizzazione sono evidentemente disprezzate da Tolkien che le inserisce all’interno di un solo regno del mondo del Signore degli anelli: Mordor. Un luogo industrializzato, imperialista, fondato sull’assolutismo e che – esattamente come il suo sovrano Sauron – è così distante dal naturale da risultare alieno. Tenendo in considerazione l’indagine sulla Terra di Mezzo tolkeniana condotta dall’antropologa Luling, questo mondo ci mostra una realtà alternativa a quella dell’Europa modernizzata, facendo di tutta la storia del Signore degli Anelli il racconto di una resistenza all’Europa capitalista. Quella che Tolkien racconta è ‹‹[…] l’Europa nord-occidentale […] da dove proviene la [sua] immaginazione›› (P. Curry, Tolkien-mito e modernità, Firenze, Bompiani, 2018, p. 49. L’autore cita un dialogo tra Clyde Kilby e il Professore. D’ora in poi questo saggio verrà citato come Tolkien- mito e modernità), dimostrando che questa natura apparentemente astratta e romantica sorge – in realtà – da un luogo vero e ne costituisce altri altrettanto specifici. Proprio la peculiarità dei luoghi, con l’estrema precisione delle descrizioni, contribuisce ad una sensazione comune a più lettori della trilogia che qualcuno ha descritto come ‹‹passeggiare, correre, lottare e respirare veramente nella Terra di Mezzo››. 

E non si può non pensare all’importanza che l’Esattezza ha nella poetica di Italo Calvino, come anche alla centralità che per lui ha il contatto con il reale. Sebbene con strumenti molto diversi – Tolkien provava un odio cordiale per l’allegoria, a differenza di Calvino che ne fa ampiamente utilizzo – entrambi gli autori cercano di non perdere di vista l’imprescindibilità del mondo reale all’interno dello strumento della Fantasia. Guardando alla produzione dello scrittore sanremese è immediato pensare, in merito, al celebre scambio tra Marco e Kublai su Venezia (‹‹Sire ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. – Ne resta una di cui non parli mai. […] Venezia, – disse il Kan. Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? […] Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome [di Venezia].›› E Polo: - ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia››), ma anche alle figure di San Girolamo – l’isolato rappresentato con la città sullo sfondo, e non l’eremita privo di interesse per l’umanità – e di Cosimo che, pur abitando un mondo arboreo, non perde mai di vista la sua funzione di essere umano per l’altro. Da non sottovalutare anche la serie di richiami autobiografici – i giardini presenti all’interno delle narrazioni conducono al mestiere dei genitori, le città industriali raccontate sembrano rifarsi sempre a Torino – che costituiscono un’altra dimensione dell’intrusione del reale nella costruzione del fantastico. 


Per dare vita al mondo della Terra di mezzo, Tolkien abbraccia l’idea di letteratura che Marco testimonia a Kublai nel corsivo IV delle Città invisibili

[…] so bene che il mio impero marcisce come un cadavere nella palude […] Perché non mi parli di questo? Perché menti all’imperatore dei tartari, straniero? Polo sapeva secondare l’umor nero del sovrano. – Sì, l’impero è malato e, quel che è peggio, cerca d’assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misurano la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane (I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2022, p.57). 


Ma accanto al racconto delle fioche luci nel buio, c’è il racconto del pulviscolo che rovina il cristallo. Scrivere letteratura è – appunto – intessere la trama di un rovescio, e mi piacerebbe sottolineare che la parola rovescio può indicare anche una pioggia intensa, riportandoci – così – a quel posto ‹‹dove ci piove dentro›› che è la fantasia per Italo Calvino. Se è vero che il genere romanzo è segnato dalla ricerca o dall’avventura, la storia del Signore degli Anelli è la storia di una ricerca particolare: contrariamente a quanto accade ne Lo Hobbit non vi è un oggetto da conquistare, ma da restituire; ed è importante sottolineare che tutta la narrazione – pur essendo dominata dalla Guerra dell’Anello – non si compone unicamente di essa. Anche Tolkien descrive il Bene: la Contea è un luogo luminoso, e tutta la storia è intessuta di personaggi che si mettono al servizio di un’ideale positivo come la pace; ma – esattamente come nella Bibbia – il Male non viene taciuto, questa forza è assolutamente reale nel mondo e si palesa anche nella Contea. Nessun luogo può dirsi impenetrabile al Male, e chi crede il contrario è più vulnerabile. Nella narrazione, la Guerra dell’Anello e gli elementi positivi sono posti l’uno in seno all’altro, in una compresenza che evidenzia una reciproca necessarietà; e il legame con Calvino torna, a mio avviso, a farsi esplicito in questa particolare duplicità (La duplicità è ricorrente in Calvino. Ad esempio, nei Giovani del Po’ la contrapposizione Nino/Nanin, ma anche i contrasti interni allo stesso personaggio di Nino), nel Sentiero dei nidi di ragno con Kim/Ferriera, l’intera vicenda del Visconte dimezzato, e in quasi tutta la sua produzione fino ad arrivare alle Città invisibili nelle quali la duplicità si ripropone, non solo in Marco/Kublai, ma per tutte le cinquantacinque città. Lo stesso Calvino si percepiva come duplice se interroghiamo le due figure di San Giorgio e di San Girolamo).


Il viaggio di Frodo scaturisce da un equilibrio e da un’armonia perduti le cui conseguenze si riflettono in ogni angolo del mondo, di qui le parole di Gildor a Frodo (‹‹Ma la Contea non appartiene solo a voi […]. Altri l’hanno abitata prima degli Hobbit, e altri ancora l’abiteranno quando non ci sarete più. Il mondo si estende tutt’intorno a voi: potete rinchiudervi in un recinto, ma non potete impedire per sempre al mondo di penetrarvi››) che invitano alla responsabilità generazionale, ma anche alla necessità di un’apertura costante al cambiamento, alla metamorfosi. La perfezione – in quanto luogo quasi bucolico – della Contea rischia di renderla simile all’impeccabile Zora che, obbligata a rimanere sempre uguale a sé stessa, muore dimenticata dalla Terra; alla città di Andria, invece, mi porta l’idea di una responsabilità in solido tra generazioni che è anche speranza di una possibilità utopica in un’epoca nella quale la Storia è finita, il progresso non ha più un fine umano e le nostre azioni contano di più se misurate in un mondo senza corpo. 


Per citare Bauman, la postmodernità prima di tutto: 

Può essere vista come restauratrice di ciò che la modernità, con grande presunzione, ci aveva tolto; […]. La guerra dichiarata al mistero e a tutto quello che è magico costituisce per la modernità la guerra di liberazione verso la dichiarazione d’indipendenza della ragione […] il mondo deve essere despiritualizzato, disanimizzato: vanno negate le capacità del soggetto […] ogni capacità positiva in suo possesso […]. È contro un mondo così disincantato che si muove il reincanto postmoderno (Z. Bauman, Intimations, cit. Cfr. T. Doherty, Postmodernism: A Reader, Harvester Wheatsheaf Hemel, Hempstead 1993, p.5); 


ed è evidente che Tolkien promuova proprio quei valori che oggi sentiamo più in pericolo: quello di comunità, quello di un rapporto con la natura e con lo spirito contro ogni trionfalismo materialista. Come disse anche Ruskin ‹‹La prosperità o la decadenza del nostro mondo dipende dalla capacità di conoscere e tramandare queste poche cose [quelle che rendono felici gli uomini], non certo dal ferro, il vetro, l’elettricità o il vapore›› (J. Ruskin, The Moral of Landscape, in Modern Painters III, 1856, 17.36) e urge, quindi, un reincanto del mondo a partire dalla meraviglia e da una consapevolezza di responsabilità a livello personale. Possiamo leggere, alla luce di queste riflessioni, ‹‹l’intero progetto della mitologia letteraria tolkeniana›› come ‹‹un pratico rimedio alla modernità come patologia›› (Tolkien – mito e modernità, p. 32). Tolkien aveva intuito che è una ragione che non dorme mai a creare i mostri, e non il sonno di quella, tanto che nel suo Sulle fiabe scrive: 

La Fantasia è una naturale attività umana. Certo essa non distrugge e neppure offende la Ragione […]. Al contrario. Quanto più la ragione è acuta e chiara, tanto meglio opererà la fantasia. Se gli uomini si trovassero in uno stato nel quale non volessero conoscere o non potessero percepire la verità […] allora la Fantasia languirebbe […] perché la Fantasia creativa si fonda sulla dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole, su un riconoscimento del dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi (J. R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Id., Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2012, p.192). 


La scelta postmoderna, su questo comincia a riflettere Tolkien in questo e altri scritti, non è più istituita tra verità o menzogna – nel caso specifico dell’autore tra realtà e mito – perché la verità, non più concentrata in un punto, si disperde e costituisce rizomaticamente. Contemporaneamente, viene ribadito a gran voce e con chiarezza il ruolo della Fantasia: essa può giungere solo dopo un’osservazione attenta e consapevole del reale, ma in questa non deve esaurirsi. L’immaginazione, questa straordinaria e umana eco della razionalità non sterile, è come il fiore del deserto leopardiano: essa sta tra le distruzioni del mondo, con dignità incrollabile e senza scomporsi, salda nel suo essere messaggio di Speranza e non solo monito delle colate laviche che la circondano. Quando ciò non accade, quando – perso il legame con il mondo e firmata la resa alla delusione – si crede che non vi sia più possibilità di metamorfosi, la Speranza non risponde più all’appello e la vita termina, come nel finale di Palomar

[…] essere morto per Palomar significa abituarsi alla delusione di ritrovarsi uguale a sé stesso in uno stato definitivo che non può più sperare di cambiare. […] Questo è il passo più difficile per chi vuole imparare ad essere morto: convincersi che la propria vita è un insieme chiuso, tutto al passato, a cui non può più aggiungere nulla, né introdurre cambiamenti di prospettiva nel rapporto tra i vari elementi (I. Calvino, Palomar, Mondadori, Milano 2022, p. 109-110).


Leggendo queste parole, mi risulta difficile non pensare alla fine della Storia teorizzata da Fukuyama, come anche non considerare – alla luce della centralità della vista in Calvino – il peso che la parola prospettiva assume. Per possedere una prospettiva è necessario scegliere un punto d’osservazione, atteggiamento che fa fatica a sopravvivere in un mondo permeato dall’indistinto e dalla liquidità. In particolare, lo sguardo di cui qui si parla è uno sguardo trasformativo rispetto ai rapporti convenzionali tra le cose che abitano la nostra vita e quelle che noi abitualmente abitiamo, in altre parole, uno sguardo in grado di squassare con la meraviglia negli occhi il velo opaco dell’abitudine. 


Anche se Calvino, nelle righe successive, non trascura di sottolineare ‹‹il sollievo dell’esser morto›› (ibid., p. 108), rimangono solide l’idea della morte come resa dell’individuo a ciò che inferno è, e l’importanza della resistenza di ‹‹quelli che continuano a vivere›› (ibid., p. 110). Ci sono diversi modi di essere morti prima di morire, su questo Calvino aveva già riflettuto; ad esempio, prima ancora che in Palomar, la morte in vita era stata fotografata nelle abitudini e convinzioni mortifere della famiglia di Cosimo come anche nella serie dedicata delle Città invisibili. Eppure, a conferma di quella duplicità già detta, c’è un controcanto a questa condizione: Cosimo rifiuta le lumache cucinate dalla sorella Battista, simbolo di quell’amore malsano, poco nutriente che la famiglia aveva da offrirgli e di valori che non si potevano più sposare; e alla serie le Città e i morti segue quella delle Città e il cielo in un contrasto che è visivo ma anche posturale. Qui gli occhi non guardano più verso il basso e, quindi, non corrono più il rischio di impigliarsi ‹‹nei rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia›› come in Zemtrude (I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2022, p.64), ma guardano verso l’alto, evidenziando l’importanza di un rapporto vitale con l’utopia. 


Palomar muore nel momento in cui riflette sul fato universale, su quel tempo che arriverà ‹‹a logorarsi e ad estinguersi in un cielo vuoto›› in toni e termini che richiamano Il frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco e il Cantico del gallo silvestre leopardiani. Eppure, Palomar, nell’atto di descrivere il tempo che finisce ha bisogno di immaginare il tempo finire, di immaginare la fine dell’immaginazione stessa, e solo allora, solo immaginando la morte della fantasia, ‹‹in quel momento muore››.


Ma la Fantasia non solo ci consente di stare al mondo, ad esso ci restituisce e noi camminiamo per le sue strade stringendo, in una mano, la risposta che abbiamo ricevuto ad una nostra domanda e, nell’altra, ‹‹la domanda che [ci] pone obbligando[ci] a rispondere›› (ibid. p. 42). La storia del Signore degli Anelli non termina con la distruzione dell’Anello, letta la pagina finale del romanzo è inevitabile fare memoria di quello che l’ha resa possibile. A ritornare alla mente non è solo il racconto di una crisi totalizzante – la Guerra dell’Anello – ma anche il coraggio, la gentilezza, la disponibilità di tutte le genti sconosciute incontrate dai personaggi in quelle circostanze particolari. Il giusto agire non proviene da un altrove non identificato, esso nasce dalla collaborazione tra chi detiene grandi poteri e l’impegno di quelle persone umili e ordinarie senza le quali il viaggio per la “rinuncia” all’Anello sarebbe stato un fallimento. 


Eppure, quel Bene, il Bene che vince sul Male, non ha garanzia di permanenza eterna e ‹‹sempre, dopo una disfatta e una tregua, l’Ombra si trasforma e s’ingigantisce nuovamente›› (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2017, p. 76). 

Quella di Tolkien è una ‹‹speranza senza garanzia›› (J.R.R. Tolkien, Lettere, Bompiani, Milano, 2018, p. 376) ed è un tipo di speranza pulviscolare che mi riporta ad una famiglia al mare, alla luce del pomeriggio che accarezza un soggiorno, al carretto che attraversa il grigiore della città e che sembra lasciare, passando, il profumo di bucato appena steso al sole d’estate (Rispettivamente il finale della Formica argentina, della Speculazione edilizia, della Nuvola di smog. L’utopia pulviscolare è presente in tutto Calvino e si sviluppa in immagini di diversa natura).  È una speranza fiamma di vita, immagine da custodire negli occhi che si fa pietra d’angolo per la rigenerazione del nostro mondo. Chissà come cambierebbe il nostro sguardo se tutti sapessimo che il mondo parte proprio dagli occhi che noi gli porgiamo, chissà quale delle due Sofronia bacerebbe. Disinteressato come quello che aggancia gli occhi di un padre a quelli di un figlio, curioso come quelli di James Ramsey che scruta il faro in lontananza e spera, disarmato come quello di Bergotte davanti al quadro che lo ucciderà, come sarebbe bello, così, quel nostro sguardo che troppo spesso diminuiamo e – assieme a lui – la nostra grandezza umana. 

Questa sembra essere una parte dell’eredità consegnataci da Tolkien e da Calvino: la consapevolezza che bisogna partire da quello che c’è, ricordarsi che il mondo respira già e che non è necessario distruggerlo per ricostruirlo. Perciò è necessario accettare che non tutto può essere conosciuto o narrato e che sfugge sempre – al controllo sociale come a quello del racconto – il volo ‹‹delle rondini, che tagliano l’aria sopra i tetti, calano lungo parabole invisibili ad ali ferme […] sovrastano da ogni punto dei loro sentieri d’aria tutti i punti della città›› (I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2022, p. 88). Imparare a lasciare andare quel che non si può conoscere a fondo, rispettarne l’aura di mistero, significa accogliere l’ammonimento di Gandalf: ‹‹Colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è, ha abbandonato il sentiero della saggezza›› (J. R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, cit., p. 296). 

È necessario accettare l’ignoto per liberarsi dalle gabbie che ogni giorno ci inducono a pensare a questo mondo come sempre meno nostro, ai nostri corpi come sempre meno necessari, alle nostre azioni come sempre meno incisive.  Il Signore degli Anelli riaccende la speranza stessa – antica e immortale – di una pace tra popoli, e lo fa suscitando una profonda nostalgia nei confronti di tutto quel buono che è racchiuso nelle sue pagine. Chiuso il libro, sistemata la sovracoperta, passando la mano sulla copertina ci si chiede se ci va veramente di consegnare ai nostri figli un mondo in cui ‹‹le automobili [sono] più ‘vive’ […] dei centauri o dei draghi››, ma anche ‹‹più ‘reali’ […] dei cavalli›› (J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, cit. p. 219). In piedi davanti alla libreria, riposto il volume dove deciso, siamo confortati, non contenti, ma neanche finiti: abbiamo una storia da raccontare e un’altra che è ancora possibile vivere a partire da quel buono che già c’è.

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