L'editore nell'era del consumismo. Asceza e declino della figura dell'intellettuale umanista

 L'editore nell'era del consumismo. Ascesa e declino della figura dell’intellettuale umanista

di Elisabetta Fiume


A partire dagli anni Sessanta/Settanta del Novecento si assiste a una massiccia penetrazione del mercato in quegli ambiti che in precedenza erano considerati parte di un patrimonio comune non in vendita. L’insaziabile bisogno di crescita del mercato e della società dei consumi porta a ridefinire come prodotti anche i settori afferenti alla sfera più emozionale dell’individuo. Rivolgendosi alle generazioni contemporanee e del nuovo millennio, Zygmunt Bauman scriveva: «Abbandonate ogni speranza di totalità, futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità liquida». Liquidità e consumismo erano in effetti temi cari allo scrittore, nonché punti focali del suo saggio Vita liquida all’interno del quale l’autore smascherò le dinamiche sottese alla società dei consumi dimostrando come queste influenzino e sempre più siano destinate ad influenzare l’individuo anche nel privato.

La società dei consumi gioca sulla promessa di soddisfare i desideri umani in un modo inimmaginabile per qualsiasi società precedente, eppure la promessa di appagare quel desiderio alletta soltanto finché esso non viene soddisfatto; per ovviare a questo problema, le strategie messe in pratica sono due: la prima consiste nel soddisfare ogni necessità, desiderio, bisogno in modo tale da generarne sempre di nuovi, al punto che ciò che inizia come una necessità finisce per trasformarsi in dipendenza; necessario il richiamo ad Italo Calvino, la cui penna arguta e sempre puntuale attribuiva all’organizzazione di Anastasia, una delle Città invisibili, lo stesso sembiante: una società che non solo si propone di soddisfare tutti i desideri, ma addirittura li previene e che, tuttavia, proprio in ciò si rivela ingannatrice poiché induce l'individuo a credere di godere della propria felicità, pur essendo suo malgrado uno schiavo del sistema. La seconda modalità, che è conditio sine qua non la ricerca di appagamento continui, è che l'offerta debba essere ingannevole, esagerata e soprattutto delusa: senza la tempestiva frustrazione dei desideri, la domanda dei consumatori potrebbe esaurirsi. Si potrebbe perciò constatare che il consumismo non riguardi il soddisfacimento dei desideri, quanto invece l'evocazione di un numero sempre maggiore di essi. Una delle zone “inedite” sulle quali la sindrome del consumatore ha assunto il controllo è quella dei rapporti interpersonali: una relazione richiede una dedizione e un impegno costanti e in un mondo di consumatori abituati a dissipare e sostituire i beni di consumo in maniera estremamente rapida, essa potrebbe risultare non conciliabile con il nuovo sistema di abitudini. Se è certamente vero che non si possono porre su uno stesso piano un oggetto materiale e un partner, un'amicizia o – in generale – un affetto, la società dei consumi suggerisce in ambo i casi, al momento della separazione da un partner come da un prodotto, lo stesso approccio, proponendo soluzioni quali corsi, libri – delle scorciatoie per raggiungere degli obiettivi che prima si perseguivano sulla base della propria sensibilità.

Tale processo di mercificazione si è visto in maniera prorompente in ambito culturale e artistico: è l'aprile del 1959 e Rodolfo Wilcock pubblica in merito un articolo sulla rivista «Tempo presente»; l'espediente impiegato è un elemento tanto inaspettato quanto attualmente vicino, il Festival di Sanremo a cui l’autore allude come «sagra della canzone» – da cui poi il suddetto articolo prende il nome. Riflettendo su una serie di dinamiche sottese a tale evento, Wilcock pensa agli individui come a dei contenitori che vengono colmati con riempitivi «veicolati dall'alta società», che possono essere più o meno elevati a seconda di chi li innesti. Nello specifico, fa riferimento alla musica e al fatto che tutti i nuovi canali, nuovi per l'epoca, come la televisione e la radio, hanno fatto sì che fosse possibile pensare, desiderare e finanche cantare lo stesso motivetto nello stesso momento. Così, la musica e le canzoni si fanno codici e segni di riconoscimento tali che «A un certo momento, ogni giorno, piova o non piova, milioni e milioni di persone sparse su entrambi i lati degli appennini si danno idealmente la mano e cantano “Piove” che è appunto la canzone prescelta nell'ultimo Festival. Le prime note del ritornello hanno immediatamente stabilito una dittatura ineluttabile sugli spiriti: cosicché la mattina dopo il festival, tutti, tranne gli eccentrici e i sordomuti, la cantavano per strada e sui balconi, e le persone in periferia – era domenica – si salutavano da lontano gridando, senza badare al sesso “Ciao ciao bambina”!». Interessante è il fatto che lo scrittore sottolinei che il non conoscere o riconoscersi in quei codici porta inevitabilmente l'individuo a sentirsi escluso, messo al margine, così come accade al lettore contemporaneo che, qualora non rispecchi i pronostici degli “addetti ai lavori” che ruotano attorno all’oggetto libro e che lo adattano – a scopo puramente economico – agli esemplari di lettori più mediocri, rimane puntualmente deluso da un'offerta e da pubblicazioni sempre più standardizzate. Invero: «In ogni modo, secondo gli invitati speciali, tutte le canzoni presentate erano brutte: non è detto che non avessero ragione. Coloro che chiudono l'orecchio a queste vicende canore rischiano di alienarsi il cuore nazionale: il loro cuore non batte più a tempo del cuore del Paese. Un giorno dovranno viaggiare in treno, e subiranno l'onta di non riconoscere le musiche che verranno loro inculcate dal microfono individuale che si progetta di nascondere nel poggiatesta dello schienale. Anzi, non saranno nemmeno in grado di trovarle piacevoli, e finiranno per rinunciare ai viaggi in treno. Ma non si può andare avanti a forza di rinunzie: forse è meglio fare la gran rinuncia una buona volta, e lasciarsi addormentare per sempre nelle melodie ufficiali». 

L'ombra del consumismo ha influenzato poi, più specificatamente, la filiera della letteratura, oggi totalmente assorbita nella filiera del libro. Di fronte alla trasformazione della letteratura in un segmento industriale si giunge a un fondamentale punto di snodo: la funzione dialettica che l'intellettuale è chiamato a svolgere all'interno della contesa tra due ordini di interesse – quello venale che concerne la produzione libraria e quello cognitivo che è il fine dell'invenzione testuale. Lungo tutto il Novecento, nel tentativo di risolvere questa antitesi, il sistema editoriale ha cercato sempre di impiegare gli intellettuali come consulenti, editor o direttori di collana; c’è stato chi ne ha fatto la propria esclusiva professione, chi ha diretto grossi progetti editoriali in concomitanza alla propria attività professionale e infine chi ha assunto un ruolo guida nella casa editrice che ha fondato: tra questi ultimi non si può non citare Roberto Bazlen, noto ai più come Bobi Bazlen, fondatore della casa editrice Adelphi di cui Roberto Calasso, che ne prenderà successivamente il posto, ci racconta all'interno del libro L'impronta dell'editore. L'immagine di Bazlen che se ne ricava è quella dell’intellettuale umanista che ha fatto del proprio lavoro un vero e proprio programma culturale e che, sin dagli esordi, si è contraddistinto per una forte originalità: «Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi […] evidentemente accennò subito all'edizione critica di Nietzche e alla futura collana dei classici - La collana delle Opere complete esordisce proprio con Nietzche nel 1964 , alto elemento peculiare visto che la pubblicazione avviene in un momento storico in cui in Italia dominava ancora una cultura dove il termine irrazionale implicava ancora una condanna. - E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore poteva trattarsi di qualsiasi cosa […]. Che cosa li teneva insieme? Non era chiarissimo. Fu allora che Bazlen, per farsi intendere, si mise a parlare di libri unici».

L'editore fornisce come esempio concreto di «libro unico» L'altra parte di Alfred Kubin, unico romanzo di un non romanziere, che secondo Calasso «si legge come entrando e permanendo in una allucinazione possente». Il «libro unico» è proprio un romanzo che coincide perfettamente con qualcosa che è accaduto un'unica volta all'autore, come fosse un accidente, e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto. Quale sia il requisito per il «libro unico», Roberto Bazlen non lo ha mai espresso chiaramente; l’editore si pregia dell’espressione «libri che abbiano il suono giusto» o, ancora, ne discorre come di residui di opere perfette che raramente lasciano tracce. La verità è che secondo l'editore nessuna esperienza è sufficiente di per sé a far nascere un libro: essa deve sempre essere elaborata e diventare scoperta di qualcos'altro. Criterio fondamentale è che il libro unico debba essere un'opera della quale l'autore non intendeva essere scrittore, ma era prerogativa dell'opera stessa servirsi di lui per esistere. Tale presupposto ideologico ha inevitabilmente dei risvolti anche nell'ambito di tutto ciò che afferisce alla sfera dell'interesse puramente venale e questo Calasso ha sempre tenuto a chiarirlo; a proposito della filiera del libro egli sottolinea: «Vendere indica qui un processo alquanto oscuro: come suscitare desiderio per qualcosa che è un oggetto composito, in larga parte sconosciuto e in altrettanto larga parte elusivo? Negli Stati Uniti e in Inghilterra, ogni giorno squadre di sofisticati art directors si trovano in questa situazione: gli viene dato un soggetto (un libro, che non necessariamente leggeranno) provvisto di alcuni caratteri primari e secondari [...]. Il loro compito è quello di escogitare l'immagine e il packaging più efficace in cui avvolgerlo. Il risultato sono i libri americani e inglesi di oggi. Talvolta brutti, talvolta brillanti, ma sempre collegati a questa trafila, che li rende troppo stretti parenti tra loro. È come se una stessa centrale, che dispone di alcuni settori altamente specializzati e di altri piuttosto rozzi, provvedesse a fornire tutte le copertine che si vedono sul banco di un libraio. Il sistema può piacere o meno. Ma è certo che, per quanto riguarda Adelphi, venne applicato sempre un sistema opposto». 

Al cospetto di un'industria che oggi più che mai orienta i consumi nella forma che è economicamente più conveniente proponendo libri semplici e che si prestino alla traduzione e alla serializzazione, i «libri unici» si discostano in maniera netta non perché, rispetto ai primi, sono necessariamente svincolati l’uno dall’altro: ciò che li lega è proprio la loro irripetibilità, l’unicità dell’esperienza di cui sono portatori e il loro carattere quasi accidentale. Altri intellettuali, al di fuori di quell’oasi felice che Adelphi è stata ed è tutt’ora, hanno cercato di esercitare la propria funzione dialettica: Italo Calvino (come lui anche Elio Vittorini e Vittorio Sereni) svolgendo il lavoro di lettore per Einaudi instaurò sempre un dialogo sia con gli aspiranti scrittori, sia con gli autori previsti nei programmi della casa editrice riportando le proprie osservazioni. Sarà opportuno richiamare la lettera che Calvino indirizzò a Leonardo Sciascia il 5 ottobre del 1962 nella quale, parlando del Consiglio d'Egitto lo esortava ad una maggiore coerenza stilistica raccomandandogli di non fare un uso smodato di metafore moderne che «si giustificano solo se in contrasto al piano della narrazione si vuol creare un altro piano della realtà contemporanea». 

Man mano però che la filiera del libro inizia ad assumere un ruolo preponderante rispetto a quella della lettura, perseguendo in prima istanza gli interessi venali e le necessità della prima, l'umanista- editore viene estromesso sempre più dai processi decisionali. L'ovvia conseguenza, legata alla scomparsa – in buona parte dei casi – al direttore di collana, è che viene meno quella figura che fungeva da garante della qualità culturale ed estetica del libro. Di fronte a un sistema editoriale sempre più complesso i cui singoli segmenti tendono a snaturare il libro nella sua accezione più pura e primigenia, sorge spontaneo chiedersi se sia possibile ancora per l'intellettuale assolvere a quella funzione dialettica: la scena odierna farebbe supporre il contrario e allora, per non abbandonarsi a un cupo pessimismo, potremmo forse scomodare ancora una volta il nostro Italo Calvino la cui opera omnia è un solerte invito a imparare a stare a galla in una imperversante liquidità, cercando al tempo stesso un modo per dare compiutezza e densità alle cose.


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