La concretezza dei non luoghi. L'utopia come strumento di resistenza alla realtà liquida.

 La concretezza dei non luoghi. L'utopia come strumento di resistenza alla realtà liquida.

di Nicole Gelsi


Tutti abbiamo visto almeno una volta Midnight in Paris di Woody Allen. C’è il classico scrittore nostalgico che vorrebbe essere vissuto nella Parigi dei Roaring Twenties, ma nello sforzo di idolatrare il passato perde di vista il presente. Di questa vicenda conosciamo bene anche la “morale” finale: è impossibile – e soprattutto inutile – ricreare nel presente il tempo passato.

Sembra che al giorno d’oggi gli intellettuali non possano fare a meno di cadere nella nostalgia o impigliarsi nella mistificazione della comunicazione. I nostalgici non si rendono conto che il mondo è cambiato, e che quindi devono per forza di cose cambiare anche i modi della letteratura di leggerlo e raccontarlo. I secondi, che potremmo definire comunicatori, sono quelli che seguono il gradimento della massa senza porsi interrogativi e, assecondando le leggi di mercato, svuotano di fatto la letteratura.

In direzione contraria a questi due fantocci, cammina una terza figura, ben netta e definita, stabile ma non rigida: è il resistente. In un mondo che si fa sempre più liquido, l’intellettuale ha il dovere di resistere all’ideologia dominante, di intercettare «il moto oscillatorio della storia senza farsene travolgere, per essere suo rispecchiamento, ma anche contestazione» (D.M. Pegorari, Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità, San Cesario di Lecce, Manni 2018). Viviamo in un mondo in cui la reificazione ha preso il sopravvento su ogni aspetto del reale: la globalizzazione, mettendo a disposizione tutto e ovunque – questo ovviamente vale per i paesi del mondo privilegiati –, crea una rete di connessioni che ci danno l’illusione di un’estrema democraticità. La possibilità che abbiamo di esprimere un’opinione su qualsiasi tema, anche quella ci sembra democratica: ma si fonda sul rimaneggiare i concetti in modo tale che tutto possa essere vero, che tutto possa essere ritrattabile e ci possa essere il minor scontro possibile.

Mario Perniola individua nella comunicazione il veicolo di questa falsa democraticità. Il pubblico entro cui si muove con successo la comunicazione è un pubblico disinformato: siamo disposti ad accettare in maniera acritica una serie di ideologie preconfezionate, motivo per cui secondo l’economista francese Jean-Paul Fitoussi la nostra epoca sarebbe caratterizzata non dal tramonto delle ideologie, bensì dalla loro banalizzazione. Questo concetto viene efficacemente ripreso da Perniola, che definisce «sensologia» l’ideologia banalizzata: è una nuova forma di potere che non si basa più sulle idee, ma dipende da un’emozionalità collettiva, già data, che ingabbia tutti nello stesso sentire. Allora la comunicazione coincide con la sensologia? Non esattamente. Per Perniola, la comunicazione è addirittura peggiore delle ideologie preconfezionate, che almeno sono determinate, hanno dei confini ben precisi; la comunicazione invece pretende di essere tutto e il contrario di tutto, si sottrae a ogni determinazione. È totalitaria ma in misura molto maggiore del totalitarismo tradizionale, perché in sé comprende anche l’antitotalitarismo (M. Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi 2004).

In questo scenario si inserisce comodamente il secondo tipo di intellettuale, quello che più che un pensatore è un comunicatore, che mente alla letteratura stessa; evitando lo scontro decide di emulsionarsi nella liquidità di una società in cui la resistenza è stata rimpiazzata dalla resilienza.

Quello di resilienza è un concetto ormai largamente diffuso, desunto dal campo metallurgico e applicato a quello psicologico e ideologico. In metallurgia la resilienza è la capacità di un metallo di resistere agli urti; in psicologia è la capacità di reagire ai traumi; quindi, ci verrebbe spontaneo dedurre che anche un’ideologia fondata sulla resilienza sia tutto sommato qualcosa di positivo, che ci porta a reagire e a resistere. Invece, nella società, il resiliente è colui che si adatta. Non vede tutti i soprusi e le difficoltà come parte di un sistema da cambiare, ma come sfide che la vita gli pone dinanzi per dargli la possibilità di crescere a livello personale. Innalzare la resilienza a ideologia diventa estremamente rischioso perché concorre a creare un’immagine del mondo incentrata sulla fatalità, inculcandoci l’idea che noi non siamo realmente in potere di cambiare le cose e adattarsi resta l’unica opzione (D. Fusaro, Odio la resilienza. Contro la mistica della sopportazione, Milano, Rizzoli 2022). Il resiliente sembra essere la perfetta evoluzione dell’indifferente e dell’inetto. Ma se l’indifferente e l’inetto vivevano quantomeno una crisi coscienziale, il resiliente è convinto di andare nella direzione giusta: pretende di riuscire ad arginare i conflitti e le contraddizioni dell’ordine sociale semplicemente con la propria crescita personale. Invece, non prendendo posizione, sta di fatto scegliendo tacitamente di acconsentire a tutti i rapporti di forza precostituiti. L’errore risiede proprio nel modo di intendere la realtà. Marx ci insegna, nella terza delle tesi su Feuerbach, che il Soggetto determina l’Oggetto e viene da esso determinato; gli uomini sono prodotti dal loro ambiente e al tempo stesso sono in grado di modificarlo. Ma per poter cambiare concretamente la realtà bisogna prima conoscerla. A rendere possibile la conoscenza è la potenzialità ontologica: tutto quello che non c’è e potrebbe esserci mette in evidenza le storture che già ci sono; per questo motivo uno dei mezzi più sovversivi che la letteratura possa adoperare è l’utopia. Definire qualcosa come utopico suona quasi denigratorio. Siamo portati a non prendere in considerazione un progetto se utopico, ci sembra derivi da una convinzione ingenua, dai vaneggi di un sognatore che non si rende conto della realtà che lo circonda. Etimologicamente però l’utopia non è connotata in maniera positiva o negativa. Quando Tommaso Moro conia il termine nel 1516 usa le voci greche ou (non) e topos (luogo) per definire un non-luogo. L’utopia è una realtà che non esiste, ma non per questo non può essere applicata al reale. Nel momento in cui l’utopia si intreccia alla politica, nasce la possibilità di sfruttare un mondo inesistente come paradigma per migliorare la realtà esistente, fornendo un modello da seguire o, per contrasto, ponendosi come critica alle istituzioni vigenti. 

Prima di giungere a questa consapevolezza, la storia dell’utopia si muove attraverso varie fasi. Partiamo dalla «fase mitica», caratterizzata da una società giusta e felice, fuori dal tempo e dallo spazio contingente, che vive nella prosperità e nell’assenza di lavoro e malattie. È un’idea di felicità che nasce dall’infelicità popolare, e non si rapporta invece all’insoddisfazione dei ceti più forti che sono già nella prosperità e nell’ozio e rivendicano per sé ancora più potere e privilegio. Attraverso queste storie il mito viene sottratto alla sua radice popolare per essere reso una generica e più alta aspirazione dell’umanità tutta alla felicità. La prima fase dell’utopia, quindi, porta già dentro sé un implicito progetto popolare. Sono documentabili anche dei tentativi da parte di filosofi greci di creare un mondo ideale che funga da modello per la società terrena: lo fa Platone nella Repubblica con la città ideale, ripresa poi da Aristotele per elaborare la teoria della costituzione perfetta nella Politica. Ai valori portati dalla fase mitica si aggiunge quello che sarà un altro tratto fondamentale del genere utopico, il rovesciamento: è una tecnica adoperata dalla favola greca e latina per evidenziare i vizi; lo ritroviamo anche nelle commedie politiche attiche, con intento polemico, e molto più avanti nelle feste carnevalesche del medioevo francese, che con il loro potenziale eversivo si tramutano spesso in rivolta. Complessivamente, l’utopia si presenta come un’istanza popolare di eversione, che ha alla base il rovesciamento di una presente condizione di ingiustizia.

Con queste premesse l’utopia entra poi nella storia vera e propria, maturando in una serie di movimenti a carattere religioso: il messianesimo ebraico, il cristianesimo, il millenarismo. È la seconda fase, chiamata dei «movimenti di salvezza», nella quale la felicità non è più un dono gratuito, ma scaturisce dalla conquista di un patto con Dio, che necessita dell’alleanza della comunità. L’ultima delle utopie di questa fase è l’eresia medievale, costituita da una rete di movimenti che recuperano alcuni punti dell’utopia cristiana con la Riforma protestante come estrema conseguenza, nel solco della quale si muove la rivoluzione inglese del Parlamento Lungo: la lotta contro la corruzione della struttura ecclesiastica diventa lotta contro lo Stato persecutore. È qui che l’utopia si impone definitivamente alla Storia, entrando nella sua terza fase: il «moderno processo di liberazione», che porta con sé un carattere sempre più antropocentrico. A partire da Moro, e poi con Campanella e Bacone, la fondazione della città ideale dipende non più dal divino ma dall’uomo. Questo tipo di utopia è estremamente ottimista, si propone come un modello per cambiare in modo costruttivo la realtà e ciò che l’utopista propone è realizzabile. 

Tra il Cinquecento e il Settecento assistiamo all’incessante moltiplicarsi di ogni forma di utopia letteraria. Ma a guardarla più da vicino, l’umanità fa emergere delle falle. L’utopia viene messa in questione, ci si chiede quale sia il prezzo da pagare affinché questa società ideale giunga al compimento. È qui che entra in gioco la distopia, che avrà larga fortuna nel clima di alienazione ed estraniamento dovuto alle macchine nell’Ottocento, e nel periodo della crisi dell’io nel Novecento. Parallelamente alla nascita della distopia, si viene a creare l’idea che la rappresentazione utopica dello stato sia immaginaria e irrealizzabile. L’approfondimento critico di tale carattere irreale si riscontra compiutamente per la prima volta nel Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels: i due filosofi, pur prendendo le distanze da queste esercitazioni della fantasia sulla società, riconoscono alla letteratura utopica il merito di fornire elementi di critica in grado di attaccare tutte le fondamenta della società esistente. L’utopia vivrà una crisi nella prima metà del Novecento e la distopia prenderà il sopravvento; saranno le grandi contestazioni degli anni ’60 a riportarla in vita: con i giovani rivoluzionari riprende la progettazione di un mondo migliore. A suggellare il carattere distruttivo del capitalismo, la crisi ecologica. L’utopia è ormai rientrata nella coscienza delle persone e si apre alla sperimentazione (A. Colombo (a cura di), Utopia e distopia, Milano, Franco Angeli 1987). È sempre necessaria, l’utopia, e mai uguale a sé stessa. Evolve con il cambiare della società perché “deve” avere lo stesso linguaggio della società a cui vuole resistere.

Vorrei concludere il nostro viaggio nella resistenza sulle note del jazz. Il jazz nasce come evoluzione e fusione di diversi stili musicali che arrivano a New Orleans nei primissimi anni del Novecento. Queste culture si incrociano a Congo Square, di domenica, nell’unico momento in cui è concesso agli schiavi di riunirsi per commerciare, ballare e suonare la propria musica. A costruire il jazz sono gli schiavi e i loro figli, che subiranno la segregazione razziale in America nel corso del secolo. È un tipo di musica che nasce in un contesto di sottomissione e discriminazione che è per antonomasia l’ambiente in cui hanno motivo di nascere le rivoluzioni. Negli anni ‘20 poi il jazz diventa simbolo della modernità, esercitando una grande forza attrattiva su giovani ribelli e intellettuali curiosi. In Europa subisce il biasimo della Destra conservatrice e simboleggia un certo grado di opposizione ai totalitarismi, che siano il nazismo della seconda guerra mondiale o il comunismo sovietico della guerra fredda. 

Tecnicamente il jazz è anarchico e irregolare, si fonda sull’improvvisazione, quindi si presenta come anticlassico; ma è anche sperimentale, colto, virtuosistico, quindi anti-leggero; in più è irripetibile, quindi anti-industriale (D.M. Pegorari, Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità, cit.).

Almeno nella prima metà del Novecento, la musica jazz ha rappresentato un forte shock culturale sotto vari punti di vista. Il jazz non nasce con l’intento della contestazione ma si è trovato ad essere una bandiera ideologica portatrice di una certa idea di mondo, e quindi di utopia. Ancora oggi potremmo abbandonarci al jazz come se fosse una metafora. Ascoltandolo solo come musica e non come idea, ci accorgeremmo che nello spazio dell’improvvisazione tutto è possibile. E in quella sospensione tra una nota e l’altra, nella democraticità con cui interagiscono i musicisti per trasformare una delle possibilità in realtà, lì, ci troviamo l’utopia.

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