Sospensione dell’incredulità e patologia dell’inesperienza: il predominio dell’ universo libresco a discapito dell’esperienza del reale da Platone a Barnes, passando per Flaubert, Eco e Calvino
Sospensione
dell’incredulità e patologia dell’inesperienza:
il predominio
dell’ universo libresco a discapito dell’esperienza del reale
da Platone a
Barnes, passando per Flaubert, Eco e Calvino
di Adriana Chiapperino
Il momento di volontaria sospensione
dell’incredulità è un particolare carattere semiotico definito per la prima
volta dal poeta Samuel Coleridge nel 1817 (S.T. Coleridge, Biographia
Literaria, Roma, Editori Riuniti 1991, p. 236), ma che in realtà è da
sempre intrinseco alla vocazione narrativa dell’uomo. Nella sospensione
dell’incredulità, il lettore si comporta come se gli eventi narrati nella
finzione letteraria siano veri, in modo tale da esserne coinvolto anche
emotivamente. Costituisce un “momento”, cioè si esaurisce (o almeno dovrebbe
esaurirsi) alla fine dell’atto di lettura: una volta chiuso il libro,
terminiamo quella parentesi in cui abbiamo volontariamente sospeso i parametri
del reale per accordarci in un patto con l’autore decidendo di dargli fede, per
poi tornare nel mondo reale, nel quale
le verità del libro letto non sono più valide. Quando questo passaggio non
avviene, si sfocia nella cosiddetta patologia dell’inesperienza. Protagonista
del romanzo Il pappagallo di Flaubert (Julian Barnes,1984), è ossessionato
dalla figura dello scrittore francese e ricerca nelle opere e nella biografia
dell’autore segni da decifrare, nel tentativo di sopperire al vuoto lasciato
dalla morte della moglie. Per analogia, potremmo allargare questa definizione a
tutti gli afflitti dalla patologia dell’inesperienza, che andando indietro nel
tempo, hanno popolato le pagine di tante opere preclare. Tra i tanti personaggi
incapaci di uscire dal meccanismo di sospensione possiamo includere: Don
Chisciotte (1605) di Miguel de Cervantes, che dopo l’overdose letteraria di
romanzi cavallereschi, colma lo iato tra realtà e letteratura – o meglio, non
lo colma affatto – traslando i tòpoi romanzeschi alla vita reale; Madame
Bovary (1856) dell’omonimo romanzo di Gustave Flaubert (da cui il fenomeno
del bovarismo, altro nome con cui poter definire la patologia
dell’inesperienza) che crede di vivere le sue passioni come un’eroina della
letteratura romantica cui si è educata; Bouvard e Pécuchet, (ultimo
romanzo di Flaubert, rimasto incompiuto per la morte improvvisa dell’autore nel
1880) in cui questi due bizzarri colleghi copisti si mettono in testa di poter
diventare esperti in qualsiasi campo dello scibile umano solo attraverso lo
lettura dei libri dedicati alle materie più disparate, rivelandosi una completa
disfatta; il giovane Roberto de la Grive, protagonista de L’isola del giorno
prima (1994) di Umberto Eco, che infarcito di dottrine sulla dissimulazione
e sull’artificiosità della parola tipiche della retorica seicentesca, non
riesce più a distinguere fra la realtà e le sue fantasie, al punto da scrivere
lettere secondo i virtuosismi barocchi dei romanzi epistolari, convincendosi
che esse compongano davvero la sua autobiografia.
Nel
saggio La leggibilità del mondo (Il Mulino, Bologna, 1984) Hans
Blumenberg definisce «antica inimicizia» il rapporto conflittuale tra libri e natura
perché, scopo insito dei primi, è di sostituirsi, quasi con arroganza, alla
seconda. Da qui parte l’ironica riflessione del filosofo tedesco su come sia
stato possibile che l’ancestrale metafora del “libro-mondo” abbia avuto una
tale diffusione se affianca due termini tra loro antitetici: «Sorge così il
mondo dei libri come antinatura (...) sorprende quindi come il libro sia
potuto diventare metafora proprio della natura – sua antipodica nemica».
Il
libro si delinea sempre di più come alternativa euristica e conoscitiva a
discapito dell’esperienza concreta, così la perdita di fiducia nei confronti
dell’autenticità dell’esperienza del reale a vantaggio dell’interpretazione
semiotica di essa attraverso le lenti filtrate del prisma letterario, porta
allo sviluppo un nuovo tipo di letteratura che diserta il rapporto diretto con
il mondo, generata dal progressivo scollamento da esso e la difficoltà di
restituire all’evidenza un senso univoco.
Lo
scrittore Antonio Scurati definisce “letteratura dell’inesperienza” tutta la produzione
letteraria che, a partire dalla fine della Grande Guerra in poi, vede come
minimo comune denominatore una vera e propria «eclissi
dell’esperienza». L’autore individua fattori sociali, culturali ed economici: «L’allentamento
dei legami comunitari, la giuridificazione dei rapporti interpersonali, l’impersonalità
degli apparati burocratici, l’alienazione del lavoro industriale, [...]
l’anonimato dell’esistenza nelle grandi aree urbane, l’avvento delle masse
sulla scena della storia, con la relativa spersonalizzazione dell’agire» (Id.,
La letteratura dell’inesperienza, Bompiani, Milano, 2006). L’avvento del
primo conflitto mondiale, vagheggiato come massimo slancio vitale che avrebbe
in qualche modo riscattato l’inetto dal
torpore accidioso, restituendolo all’esperienza più concreta e completa che un
uomo potesse affrontare, produsse invece la più devastante delle
autodemistificazioni. Come osservò Benjamin, fu proprio allora che si verificò «la
più totale caduta delle azioni dell’esperienza»
(Id., Angelus
Novus,
1962, p. 248).
Che
la scrittura avesse il potere di sostituirsi all’esperienza è un timore antico quanto
la nascita della scrittura stessa. Umberto Eco nel saggio Le tentazioni
della scrittura riporta un apologo che Platone fa pronunciare a Socrate (oppositore
per antonomasia al predominio della scrittura) nel Fedro: il dialogo tra
il faraone e il dio Toth. Il faraone accusa la divinità per l’invenzione della
scrittura: gli uomini avrebbero perso la capacità di ricordare e di coltivare i
propri pensieri, oggettivando la propria anima su delle tavolette. Eco
definisce il dio Toth «la divinità semiotica quante altre mai» perché considerato
non solo inventore del linguaggio e della scrittura, nonché protettore degli
scribi, ma anche dio della medicina e della magia. Scrittura e medicina sono i
due ambiti dello scibile dove è necessario saper legger e interpretare i segni.
Di
segni che si moltiplicano all’infinito e simboli che sia affastellano senza
prospettiva di soluzione ha scritto molto Calvino, che nella sua multiforme
produzione ha sempre riservato alla riflessione semiotica un posto d’onore. Nel
suo sovrabbondante catalogo di creature letterarie, l’autore sanremese ha
inserito anche una serie di personaggi che possiamo “diagnosticare” come
contagiati dalla sopracitata patologia dell’inesperienza.
Il
protagonista di Angoscia in caserma, – un racconto scritto nel 1945, uno
dei più “resistenziali” di Calvino, inserito nella raccolta Ultimo viene il
corvo del ‘49, – è un giovane partigiano
prigioniero in una caserma fascista, afflitto dal cosiddetto «male dei simboli». Questo malessere porta l’alter ego dell’autore a
cercare dietro l’evidenza del reale «un significato minaccioso e allusivo», a
considerare «cose e uomini non più loro stessi ma simboli», portandolo così a
un progressivo scollamento dalla realtà. Solo quando riuscirà a scappare dalla
condizione di prigionia, in una corsa liberatoria lungo la collina, il giovane
partigiano recupererà la corrispondenza tra reale e rappresentazione di esso,
quando le cose sono quello che sono e non rimando a qualcos’altro:.
Anche
il protagonista de La nuvola di smog (1958) stabilisce un rapporto
semiotico ed ermeneutico con il mondo, nei segni che il panorama urbano gli
fornisce e che egli deve interpretare prima ancora di muoversi al suo interno. «Segni
di cosa? Segni che rimandano ad un altro all’infinto»: ecco che il giornalista
protagonista del racconto si trova intrappolato in un cortocircuito di processi
infiniti di interpretazione, il cui continuo rinvio verso un’agognata epifania
resterà disatteso, come l’infinito disvelarsi del drappo sul vuoto raffigurato come
stemma dello scudo di Agilulfo, il cavaliere inesistente protagonista
dell’omonimo romanzo.
Il
terzo personaggio calviniano affetto dalla patologia dell’inesperienza è il
Lettore senza nome del capolavoro metaletterario Se una notte d’inverno un
viaggiatore (1979), specialmente nella scena dell’amplesso con la Lettrice
Ludmilla: paradossalmente l’azione più fisica per eccellenza viene descritta
attraverso una serie di metafore libresche e l’esperienza d’amore altro non è
che una reciproca operazione di esegesi semiotica.
A
questi c’è da aggiungere Tamara, la città dei segni senza fine. La prima delle città e i Segni (Le città
invisibili, 1972).Questa è afflitta dalla patologia dell’inesperienza, in
cui un «fitto involucro di segni» si sostituisce all’esperienza diretta, tanto
che il viaggiatore che l’attraversa ne esce senza averne davvero conosciuto il
contenuto.
Il
narratore stesso dell’atlante concettuale delle Città invisibili, Marco
Polo è però, a ben guardare, un personaggio che presenta alcuni tratti della
patologia dell’inesperienza, ponendosi quindi come rovescio del Marco Polo
storico, il mercante viaggiatore veneziano del XII secolo. Utilizzando come
traccia un saggio che Umberto Eco ha dedicato proprio all’autore del Il Milione
(Descrivere
l’ignoto),
possiamo procedere con un confronto tra il Marco calviniano e quello reale.
Eco
definisce il viaggiatore veneziano come un «inviato speciale», un reporter ante
litteram, che basa sull’esperienza diretta i suoi resoconti, contraddicendo o correggendo
le aspettative fantastiche che invece la tradizione enciclopedica a lui
precedente, coeva o successiva diffondeva. Eco cita il caso esemplare di Mandeville,
autore del Trattato delle cose più meravigliose e più notabili che si
trovano al mondo, che pur scrivendo sessant’anni dopo Polo, popola le terre
lontane di animali fantastici e mostri umanoidi trovati nei libri precedenti, perché
«il compilatore di enciclopedie storiche e geografiche
era un signore che sedendo a tavolino si basava sui testi»,
in cui ogni cosa è trasformata in «leggibili allegorie». Marco Polo racconta
ciò che vede, anche se incredibile o stupefacente. Non allegorizza né
moralizza, ma registra.
Se
il Polo di Eco è il campione dell’esperienza, il suo rovesciamento è il Marco
di Calvino perché, come gli fa notare più volte il suo interlocutore, Kublai Khan,
le città di cui lui parla non sono reali, ma elaborazioni mentali di un
viaggiatore paradossalmente fermo, che non racconta di esperienze concrete, ma
concetti. In questo, il Polo calviniano è forse più simile a quel Mandeville
che scriveva senza muoversi, descrivendo luoghi e creature irreali: città “invisibili”
appunto, ma cariche di allegorie e significati.
Gli
intellettuali e gli artisti prima del ‘600 Barocco, poi del ‘900 Postmodernista,
per quanto temporalmente lontani, possono dirsi affini per aver trattato con lo
stesso fervore – seppure con forme e linguaggi diversi – la vexata quaestio
sul rapporto tra realtà e rappresentazione, concentrando il loro sguardo sulle
potenzialità della letteratura nel creare uno spazio-tempo finzionale ed
enfatizzando l’artificio della scrittura letteraria come scarto dalla norma,
proclamando la supremazia della parola scritta come esperienza conoscitiva del
mondo.
Vale
la pena citare Torquato Accetto e il suo trattatello (1641) – riscoperto e
ristampato da Benedetto Croce nel 1928 – in cui sosteneva quanto l’arte della
dissimulazione fosse uno strumento necessario da coltivare per sopravvivere una
società come quella del XVII secolo dove il virtuosismo dell’ipocrisia, la
sistematica copertura della realtà e la teatralizzazione dei comportamenti
erano parte integrante della retorica del tempo. Nel capitolo II del trattato (“Quanto
sia bella verità”), Accetto individua nella mitica Età dell’Oro il periodo in
cui l’uomo non aveva bisogno di dissimulare perché tutto aveva una corrispondenza
perfetta, una mimesi speculare tra realtà e rappresentazione. Corrispondenza che viene meno nelle
altre epoche umane, simile a quella che, ad esempio Calvino ci restituisce nei
suoi libri: «il male dei simboli» che affligge il suo giovane partigiano di Angoscia
in caserma si manifesta proprio con l’incapacità di far corrispondere al
reale un’interpretazione mimetica, ma sempre simbolica, allegorica.
La lingua dell’autore è sempre “lingua
altra” rispetto a quella dell’esistenza mondana e il linguaggio letterario è
inevitabilmente straniante, perciò irriducibile nella sua alterità. Artisti e intellettuali
sono chiamati a elaborare un pensiero “obliquo”, sforzandosi di trovare
un’alternativa sintetica tra le idiosincrasie che li tirano ora da un lato ora
dall’altro, rischiando di lacerarli: caos in espansione e ordine catalogatorio,
utopia euforica e ottimistica e distopia disforica e pessimistica, ineffabilità
del soggettivo e necessità di compromesso comunicativo dell’universale,
tentazione alla fuga dal reale e volontà di impegno concreto, chiamata del
vuoto dall’abisso della perdita di senso e approccio costruttivo della speranza
creativa.
Commenti
Posta un commento