Letteratura a punti


Letteratura a punti:

di Donata Martellotta

Immagine che contiene vestiti, arredo, tavolo, interno

Descrizione generata automaticamente

Nella foto, Sof’ja Andrèevna bussa a una porta immaginaria per non disturbare il marito Lev Tolstoj mentre scrive. È ciò che immaginiamo quando pensiamo al lato creativo della composizione letteraria: lo scrittore costruisce uno spazio virtuale in cui far muovere i suoi pensieri; tale energia viene percepita con forza e dà un certo timore reverenziale, tanto che ci si sente in dovere di chiedere il permesso prima di attraversare il confine di ciò che reale non è, ma condivide gli stessi parametri.

Il vortice parte da un punto, la mente. E da un punto si dipana anche la storia dell’universo: lo afferma la teoria del Big Bang, lo racconta Qfwfq in Tutto in un punto. Tutto era concentrato in un punto e né il concetto di spazio né quello di tempo avevano alcun senso; bastò l’idea di un piatto di tagliatelle preparato a mano dalla signora Ph(i)Nk0 per dare vita a una sequela di immagini in espansione, lunga una pagina intera. È questa la letteratura – «uno slancio generoso, il primo, [...] un vero slancio d’amore generale» (I. Calvino, Le cosmicomiche, Milano, Mondadori 2016, p. 44) –, e lo scrittore vi si pone davanti in «contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l’impenetrabilità puntiforme di lei)» (ivi, p. 43).

Anche Borges configura la forza creativa della letteratura come un punto, l’Aleph, e mantiene stretta la connessione tra nutrimento della mente – la letteratura – e quello del corpo: la stanza in cui è possibile visualizzare «il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli» (J.L. Borges, L’Aleph, Milano, Adelphi 1998, p. 131) è situata sotto la cucina; sopravvive anche l’idea di una certa ancestralità: il punto è nella casa dei genitori di Carlos. L’Aleph viene descritto come condensato in «due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse» (ivi, p. 134) e nell’accumulazione di immagini il periodo occupa lo spazio di una pagina e mezza di scritto. Lo scarto tra i due scrittori si fa evidente nel dopo: ciò che nel protagonista borgesiano è «infinita venerazione, infinita pena» (ivi, p. 135) e sfocia in inquietudine perché non è in grado di condividere tale sapienza con nessuno, in Qfwfq è accennato come un latente rimpianto per la dissoluzione della signora Ph(i)Nk0. L’unica sensazione positiva in Borges è il sollievo: «Temetti che non fosse rimasta una sola cosa capace di sorprendermi, temetti che non mi avrebbe più abbandonato quell’impressione che tutto fosse un ritorno. Fortunatamente, dopo alcune notti d’insonnia, mi vinse di nuovo l’oblio» (ivi, p. 136).

L’immagine di un punto che con la sua luce dia senso al contorno è ricorrente. Calvino la utilizza nel racconto La taverna dei destini incrociati (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori 2023): i personaggi nel bosco buio e nebuloso vengono attirati dalla luce proveniente dall’interno di una locanda emanata dai tarocchi, unico loro mezzo per abbattere la frontiera dell’afasia e comunicare. Tale visione ritorna nella prima delle Lezioni americane: stavolta il pensiero dell’autore migra sulla lirica e contempla la piccola luce evocata da Montale in Piccolo testamento che all’improvviso si staglia nell’oscurità notturna della mente del poeta (evidente è il richiamo alla selva oscura del Sommo Poeta); egli mette in rilievo le «minime tracce luminose che […] contrappone alla buia catastrofe» (I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori 2016, p. 10) che si muovono dalla concretezza di una «traccia madreperlacea di lumaca/ o smeriglio di vetro calpestato» o di uno specchietto porta-cipria alla metafora di una speranza, di una «professione di fede nella persistenza di ciò che più sembra destinato a perire» (ivi, p. 11), per cui alla fine è svelato che «il tenue bagliore strofinato/ laggiù non era quello di un fiammifero» (E. Montale, La bufera e altro, Milano, Mondadori 1961, p. 122).

È questa fiammella che lo scrittore deve inseguire e propagare al meglio. Ancora Calvino, tramite le sue conferenze mai pronunciate, cerca di tracciare uno schema pratico da seguire: una delle caratteristiche essenziali di un buon testo scritto deve essere la leggerezza, intesa come «precisione e […] determinazione», non come «vaghezza e […] abbandono al caso» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 19). Così egli assume a exemplum della leggerezza nella pensosità Guido Cavalcanti, impegnato nella filosofia oltre che nella letteratura: restituisce tracce della sua poetica in cui l’evanescenza dell’espressione nasconde un lavorio meticoloso di alleggerimento del testo, ma soprattutto si sofferma sull’immagine icastica offerta alla Storia da Boccaccio in Decameron (VI, 9). Nella novella appena citata, il poeta fiorentino – «austero filosofo» (ivi, p. 14) spicca un salto «sì come colui che leggerissimo era» (G. Boccaccio, Decameron, Venezia, Sonzogno 1883, p. 100) sulla pesantezza del mondo «dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 16). Di salto in salto, Calvino osserva il movimento agile del seicentesco Cyrano de Bergerac – «il primo poeta dell’atomismo nelle letterature moderne» (ivi, p. 24) – su alti gradi di astrazione del ragionamento, ma ciò che qui interessa è la trasfigurazione del parigino a opera di Edmond Rostand: memore della lezione del poeta filosofeggiante, il commediografo costruisce un gioco di parole conturbante e leggerissimo (E. Rostand, Cirano di Bergerac, Firenze, La Casa Usher 1981, pp. 34-36), un saltello continuo sui paragoni possibili del naso prominente dello spadaccino avvicinandosi ai balzi del pensiero del reale Cyrano che «arriva a proclamare la fraternità degli uomini con i cavoli» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 25). Sembra opportuno annoverare nella corrente disamina lo slancio generoso della signora Ph(i)Nk0.

Per Calvino, l’arma per lottare in forma scritta contro la pesantezza del mondo è lo scudo di Perseo, attraverso cui l’eroe della mitologia greca riesce a guardare – e uccidere – Medusa senza restarne pietrificato. Ecco, in tale sguardo obliquo risiede la forza dello scrittore che deve trovare dei tranelli per vanificare quello diretto e paralizzante sulla realtà. Negli esempi finora analizzati, c’è almeno un oggetto riflettente coinvolto: nel racconto di Borges, l’Aleph si riflette su di «una piccola sfera cangiante» (J.L. Borges, op.cit., p. 134) di cristallo; nel componimento di Montale, sono presenti pezzi di vetro smerigliato e uno specchietto da toeletta.

A proposito di riflessività, Lolli ha riscritto agilmente le lezioni americane in chiave scientifica perché anche la matematica è una «potenzialità illimitata e multiforme per incontrare qualcosa che ancora non esiste» (G. Lolli, Discorso sulla matematica, Torino, Bollati Boringhieri 2011, p. 33). Fruttuoso è il paragone di Mario Barenghi della letteratura con il fondale fisso del teatro classico, «il luogo ideale in cui tutte le tragedie così come tutte le commedie possono svolgersi. Un luogo della mente, fuori dello spazio e del tempo, ma tale da identificarsi con i luoghi ed i tempi d’ogni azione drammatica» (ivi, p. 36): ancora una volta, ritorna l’Aleph, il «multum in parvo» (J.L. Borges, op.cit., p. 132).

Un’ulteriore arma è presentata da Calvino nel secondo capitolo di Lezioni americane: il ritmo della narrazione. Come sempre avviene negli scritti dell’autore italo-cubano, l’opposto non è escluso dalla riflessione: la lentezza della composizione. È ciò che nasconde durante l’intervista con Alberto Sinigaglia per la trasmissione televisiva Vent’anni al Duemila (27 maggio 1981): le sue lunghe pause di riflessione sottintendono che è necessario del tempo per “riflettere” la società in modo proficuo. Così, tuttavia, lo scrittore perde il suo flow rispetto all’ambiente sociale; nasce perciò «il senso di colpa, appunto, per quell’improduttività e per quella inessenzialità che la nascente civiltà produttivista rimprovererà sempre all’umanista, come lusso inaccettabile per la modernità» (D.M. Pegorari, Letteratura liquida, San Cesario di Lecce, Manni 2018, p. 48), fulcro del discorso di ringraziamento dell’attore Fabrizio Gifuni per il premio come miglior attore protagonista nel film Esterno Notte durante la manifestazione cinematografica dei David di Donatello 2023. Bradbury riesce magistralmente a far emergere la difficoltà di incontro tra due mondi così diversi attraverso il dialogo tra Clarisse McClellan e Guy Montag: la ragazza è l’unica persona in tutta la città che si fregia ancora di essere un pedone, mentre i suoi concittadini sfrecciano sulle loro automobili; l’uomo è sbigottito dai pensieri della fanciulla, che sembrano d’altronde così basilari, ed è violentemente atterrito quando lei scava appena sotto la superficie emotiva e gli chiede se sia felice. Clarisse è la superficie riflettente di Guy, che si vede «sospeso in due lucenti gocce d’acqua fulgida», ma anche la sua fonte di luce perché il suo viso emana «una luce molle e continua. […] La luce stranamente confortante, rara e lievemente adulatrice, carezzevole, d’una fiammella di candela» (R. Bradbury, Fahrenheit 451, Milano, Mondadori 1966, p. 9).

La capacità riflessiva della letteratura è insita nel verbo “scrivere”, che sempre più stabilmente assume diatesi media: rafforza l’idea che il processo creativo transiti sul suo autore nelle istanze di temporalità, persona e linguaggio. La scrittura diventa un meccanismo marcato in quanto l’autore riflette inevitabilmente – e a certi livelli anche inconsapevolmente – la sua cultura nei suoi prodotti letterari. Per tale motivo, il campo di ricerca umanistico ha sempre più bisogno degli strumenti di antropologia, sociologia, linguistica che hanno «una loro carica provocatoria» (R. Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi 1988, p.14) nella critica al testo. Il campo dello scrittore diventa «molto più radicalmente […] solo spazio di chi scrive» (ivi, p. 21). Si prenda il caso del Manifesto del Futurismo: esso transita sullo scrittore per plasmare un nuovo tipo di intellettuale, e perciò lo riflette; contemporaneamente, riflette la società perché cerca di modificarne le attitudini. Nel 1909, infatti, Marinetti scrive: «La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno» (F.T. Marinetti, I Manifesti del futurismo, lanciati da Marinetti [et al.], Firenze, Lacerba 1914, p. 6). Nelle battute finali, però, emerge che inevitabilmente la società continua a riflettere la letteratura: Marinetti non può dimenticare «le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine» (ivi, p. 8), tipiche istanze del primo Novecento.

La letteratura è una «sfida della dicibilità dell’universo» (D.M. Pegorari, op.cit., p. 39) perché la parola è «inseguimento perpetuo delle cose» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 29). Essa ha origine nella domanda: “Cosa succederebbe se…?”, associata naturalmente durante il Positivismo al metodo scientifico. Così, ad esempio, Zola dichiara fin dal titolo del suo saggio che si pone in veste di «sperimentatore» per analizzare «i fatti della realtà e […] studiarne la concatenazione agendo su di essi. […] Ne deriva la conoscenza scientifica dell’uomo nella sua azione individuale e sociale» (É. Zola, Il romanzo sperimentale, Parma, Pratiche 1980, p. 8). Breve è il passo per arrivare alla sociologia, ribattezzata da Comte «fisica sociale» poiché cerca «di spiegare, con la maggior precisione possibile, il grande fenomeno dello sviluppo della specie umana» (A. Comte, Considérations philosophiques sur le sciences et les servants, Torino, Loescher 1975, p. 177). È fisica sociale, ad esempio, l’ambiente che Moravia costruisce nel suo romanzo d’esordio (A. Moravia, Gli indifferenti, Milano, Alpes 1929) per riflettere la società d’intorno. La fisica sociale agisce, d’altra parte, anche in maniera retroattiva: esemplare è stato il caso di censura sui romanzi di Roald Dahal rispetto a tutti i riferimenti al genere, alla razza, al peso per non urtare la nuova era del politically correct.

Troppi sembrano essere i punti da tenere sotto controllo, tanto che pare di annegare. L’ultimo punto di questo lavoro è la siepe recanatese di Leopardi, simbolo di tutti gli ostacoli che la letteratura frappone tra il suo pensiero e il suo agire con i suoi «interminati spazi» e «sovrumani/ silenzi», ma anche spazio immaginario in cui co-esistono «l’eterno,/ e le morte stagioni, e la presente/ e viva» (G. Leopardi, Canti, Milano, Il polifilo 1984, p. 131). L’editoria moderna insegna che una scialuppa per navigare in questo mare immenso si trova sempre: il compito dell’umanista è lavorare sulla sua robustezza, constanter et non trepide.

 


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