Mi hanno detto non esiste più la Destra e la Sinistra. Fanculo, io so riconoscere un fascista. Una questione di linguaggio.

 Mi hanno detto non esiste più la Destra e la Sinistra. Fanculo, io so riconoscere un fascista.

Una questione di linguaggio.

di Donata Martellotta


Cosa è la libertà? Dopo qualche attimo di riflessione, sono abbastanza sicura che la maggior parte delle risposte ruoterà intorno a ciò che libertà non è. E allora si prenda davvero un caso in cui tale diritto inalienabile dell’uomo è stato brutalmente ed evidentemente negato: il regime fascista, il famoso Ventennio durato dal 1919 al 1945.

Vorrei in questa dissertazione soffermarmi in particolare su come la repressione colpisca il linguaggio, che si intreccia, mutevole come un rettile, al serpente del potere nel caduceo.

Antonio Scurati recentemente ha ricomposto il mosaico del Fascismo, insistendo sulla molteplicità di voci che crearono il coro dittatoriale tramite l’adozione di punti di vista variegati (M, 3 voll., Bompiani, Milano, I: 2018, II: 2020, III: 2022). A proposito del controllo sulla libertà, ha scritto: «Spaccare la testa ai pochi che ancora grideranno apertamente alla libertà è roba vecchia, da sbirri ottocenteschi. Un gioco da ragazzi in confronto al compito assegnato dal secolo Ventesimo: ora si tratta di strozzare in gola il mugugno a milioni di potenziali mormoratori, prima ancora che affiori alle labbra. Anzi: prima ancora che invada la mente» (A. Scurati, M. II, p. 253). E senz’altro tale questione era avvertita forte anche dagli intellettuali antifascisti, paralizzati sulle prime nelle azioni, ma acutamente consapevoli del retrogusto di ciò che stava accadendo; fondato il giornale d’opposizione “La libertà” durante l’esilio scontato nella capitale francese, il 17 marzo 1927 chiosarono: «Un solo delitto: il pensiero. Anzi, il sospetto di un pensiero».

Per soffocare il pensiero, è evidente che la violenza debba subentrare nel modo più subdolo possibile e sconfinare nell’illegalità dell’illegalità. Fu ufficialmente creato il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (meglio: del capo dello Stato, Benito Mussolini), ma ciò che inibì davvero i giri arzigogolati della mente fu una sigla: OVRA. Innumerevoli gli sforzi di sciogliere tale acrostico: opera volontaria per la repressione dell’antifascismo, organizzazione di vigilanza e repressione dell’antifascismo, organo di vigilanza dei reati antifascisti… «Ma la verità è che il termine Ovra non significa un bel niente. Mussolini l’ha scelto semplicemente per le sue assonanze con la parola “piovra”» (Ibidem, p. 573), animale infimo e subdolo come il meccanismo della diffamazione che senza preavviso soffocò con i suoi tentacoli la coscienza dei cittadini italiani fino a irretirne i valori più nobili, quelli che ci rendono umani; una tale claustrofobia di onestà intellettuale è forse paragonabile solo all’odio che si riversò sulle donne durante la celebre età delle streghe. Nel caso appena citato, l’accusa era una sola – quella di stregoneria, i confini linguistici erano tracciati; se, però, addirittura il meccanismo sguscia via dalle mani, inafferrabile, dove si ferma la violenza d’attacco della parola - e quindi dell’azione?

A ben pensarci, non va tanto meglio neanche quando parole che significhino qualcosa sono impiegate solo di facciata: il Tribunale speciale si ricoprì di ridicolo perché sotto la dicitura ufficialmente legale si nascosero i capi di imputazione più banali che, tuttavia, previdero la stessa repressione serrata. «Anche l’era del terrore comincia con lo sberleffo, la battuta insolente, con la barzelletta. La seduta che inaugura il Tribunale speciale per la difesa dello Stato porta alla sbarra un muratore che, informato del fallito attentato a Mussolini, pare abbia esclamato: “Li mortacci sua… ‘sto puzzone ancora non l’ha ammazzato nessuno!”» (Ibidem, p. 249). Il tale, un certo Cataldo Doria, operaio barese, quasi analfabeta e perciò senza nessuna carica espressiva davvero temibile per un regime dittatoriale, fu condannato per apologia di reato e per offesa alla persona del primo ministro a nove mesi di reclusione, ad un anno di sorveglianza speciale e a cinquecento lire di multa. Se l’accusa ha tutto lo spazio verbale necessario per esprimersi, la difesa viene costretta al silenzio: i convenuti scoprivano i loro capi d’imputazione durante lo stesso processo; ed è proprio necessario aggiungere che le sentenze erano sottoposte al Duce prima di essere pronunciate?

Il dispositivo per cui ad accusa banale segue condanna brutale non deve stupire: «La complessità non si deve semplificare, si deve banalizzare. Semplificare, oltre a essere complicatissimo, significa togliere il superfluo e tenere l’essenziale; ma è proprio il superfluo che genera l’utile rumore di fondo che rende tutte le voci uguali e neutralizza il maledetto dissenso» (Michela Murgia, Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, Torino, 2018, p. 23). E non sorprende nemmeno che la repressione abbia parole violente sì, ma comprensibili da tutti i diversi gradi di acculturamento della popolazione: «Il fascista sin dagli esordi deve parlare come mangia. Affinché la violenza torni a essere uno strumento di lotta politica è essenziale abbandonare ogni mezza misura espressiva e chiamare le cose col loro nome» (Ibidem, p. 53) perché solo così diviene anchilosata – e perciò inservibile – davvero la nostra capacità di ragionamento.

E allora che fare per contrastare lo stillicidio del pensiero? Non chiudere gli occhi sulla realtà, continuare a porre domande, sempre, incessantemente, per non perdere mai il bandolo della matassa. «Il problema è stabilire chi non è in parte coinvolto nella legittimazione del fascismo come metodo, cioè quanto fascismo c’è in quelli che si credono antifascisti. Il rischio è dire: se tutto è fascismo, niente lo è. Non è così. Non tutto è fascismo, ma il fascismo ha la fantastica capacità, se non vigiliamo costantemente, di contaminare tutto» (Ibidem, p. 95). 

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