Libertà di fuga: la condanna di Raffaele Carrieri

 Libertà di fuga: la condanna di Raffaele Carrieri

di Sara Mansueto

«Me ne sono andato/ tante volte/ e non ho voglia/ non ho più voglia/ di ritornare» (R. Carrieri, Un doppio limpido zero. Poesie scelte 1945-1980, a cura di S. Modeo, Interno Poesia, Latiano 2023, p. 229).

Sono parole stanche quelle dell’anziano Carrieri, parole consumate dai passi, dai luoghi, dagli incontri, parole rassegnate da ogni barlume di vitalità perduto per le strade, parole sole… certamente, meno sole del loro stesso autore.

Raffaele Carrieri nasce a Taranto nel 1905 e muore in provincia di Lucca nel 1984. I suoi quasi ottant’anni di vita hanno tenuto la mano ad una costante, salvifica e traditrice, amica: la fuga. Già tredicenne, il giovane Carrieri è restio a riporre qualsiasi speranza nella sua terra natia: la sua pure cara città del Sud viveva, all’inizio del XX secolo, solo delle piccole attività artigianali e industriali e dell’Arsenale della Marina Militare. Si imbarca allora per l’Albania, raggiunge il Montenegro a piedi, resta ferito alle mani nell’impresa di Fiume, si impegna in qualità di gabelliere a Palermo, nell’ambiente parigino entra a contatto con personalità europee di spicco, si trasferisce a Milano dove comincia la sua attività di critico d’arte. Fu la febbre di conoscere, o forse di essere, di percepirsi vivo, a spingerlo altrove. 

Fin da Il lamento del gabelliere, la prima raccolta poetica del ’45, il poeta lascia che le parole si intreccino sugli impulsi dell’allontanamento, sugli albori della solitudine e del silenzio, sulle prime percezioni di un corpo scomposto («Dall’udito/ al mantello/ non ho più/ niente di mio./ Anche le mani/ hanno cessato/ di essere mie», Ivi, p. 25), sulla costruzione di un muro – che molto rimanda a quello montaliano – che cadenzerà tutta la sua poesia. 

Attraversando il mare, con le parole, con il corpo, con l’anima («Attraversai il mare/ e me ne andai», Ivi, p. 36), Carrieri si sposta di terra in terra. Il mare, costante della poesia del tarantino (ma potremmo ben dire, perno della vita di qualsiasi tarantino di ogni tempo), è l’unico regalo che Taranto gli ha offerto: avvolge con la sua vastità, unisce nella sua dispersione e crea un filo di collegamento, con il suo incessante movimento, tra il poeta e tutto ciò che ha voglia di raggiungere, tutto ciò che ha voglia di diventare. 

Ben presto Carrieri diventa un cittadino d’Europa e il suo vagabondaggio prosegue, cieco e incompleto, fra terre nelle quali non è mai in grado di riconoscersi, tra gli amori sempre nuovi, per culture, musiche e colori trasportati da venti diversi, in una perpetua percezione del tempo che inesorabile e tagliente, passa. Un avventuriero, un picaro, un solitario di buona compagnia, un uomo capace di indossare occhi mutati ogni giorno, nella vita quotidiana, come nella poesia. Quella stessa poesia che lo segue, lo riflette, si trasforma con lui e sembra perfino tradirlo quando gli svela i segreti più infimi, seppur evidenti, della sua esistenza. I versi viaggiano con lui, coprono le grandi distanze percorse, seguono il suo continuo, disordinato, movimento. 

Carrieri trova nella fuga tanto il motivo di un nuovo allontanamento, quanto quello di un riavvicinamento. Si addice a questo suo gioco, a questa statica ciclicità, il canto de La civetta, titolo di una raccolta del ’49. Più elementi inducono ad un riconoscimento da parte del poeta nell’animale: la civetta è un uccello e, per natura, animale viaggiatore; per giunta, notturno, la quale caratteristica rimanda ai noti problemi di Carrieri legati all’insonnia, nonché al momento, a suo dire, più propizio per la scrittura. Il poeta le si rivolge direttamente: «Civetta, quando tu canti/ quando batti sul mio cuore/ l’antico mesto richiamo,/ quando intrecci sul mio cuore/ il primo al secondo anello/ come un doppio limpido zero,/ quando dai cieli morti/ al silenzio vedova torni/ nel breve giro di un suono/ leghi la mia alla tua notte» (Ivi, p. 63). Unico essere in grado di comprenderlo, la civetta sembra parlare la sua stessa lingua, modulare il canto per mezzo di innalzamenti e abbassamenti leggeri e costanti e addirsi perfettamente alla sua poesia. L’andamento circolare del limpido suono figura un doppio zero, che altro non riproduce se non il simbolo dell’infinito, e si rivela stasi laddove serve a legare le solitudini dei due notturni (non è un caso che Stefano Modeo scelga proprio questi versi per intitolare la raccolta di poesie scelte, edita da Interno Poesia nel 2023, di cui ne è curatore). 

I versi di Carrieri muovono nell’uso sapiente delle rime, nei ritornelli e nelle espressioni che si ripetono, nelle parole che toccano ogni sfera sensoriale, nella definizione di una poesia che sembra ricominciare da se stessa, in un perenne dialogo tra il suo presente e il suo passato. La memoria è quella legata all’infanzia, agli affetti più cari, ma più di tutto, alla madre: la maternità è la sua unica occasione per ritornare alla propria coscienza, alla propria spiritualità, è il dolce richiamo dell’unica persona che non lo ha mai abbandonato. La donna preoccupata – con la premura che solo una mamma può avere nei confronti del proprio figlio – è spesso stata la ragione dei ritorni a Taranto del poeta; ma questo forte affetto non ha mai trovato un accordo con la sua parte più libertina, tanto che fu la madre, alla fine, a decidere di trasferirsi con lui a Milano. A lei Carrieri dedica versi di sensibilità pungente, di riconoscenza e drammaticità graffiante.

Col tempo le immagini del niente, della provvisorietà, dei silenzi, della povertà, della monotonia, della solitudine, si fanno più incisivi e Carrieri si avvia a scoprire una strada sconosciuta fino ad allora: quella verso la morte. In un tanto lungo e largo esplorare, quando La giornata è finita (titolo di una raccolta poetica del ’63), Carrieri si ritrova solo nel suo crepuscolo, costretto a mettere a nudo le sue fatiche. Assieme al giorno, volge al termine il suo viaggio più importante e si riconosce solo e disorientato. Lui, che di mete nel corso della vita se ne era prefissate tante, ora non ne ha più alcuna. La sua poesia ora rallenta, pesa come un macigno sulla vecchiaia che incalza, sull’insonnia che peggiora («Ascolto la notte/ la tosse/ che mi rompe/ e si nasconde./ Invano cerco/ allo sbocco/ dell’insonnia/ lo sguardo in fiore/ dell’invito a vivere», Ivi, p. 248), ma è ancora il modo migliore che conosce per specchiarsi, per tirare le somme de La ricchezza del niente (dal titolo dell’ultima raccolta poetica dell’autore, del 1980) che ha riempito e svuotato la sua vita.

Carrieri affronta la paura della morte nel 1984, quando ancora aveva dei conti in sospeso con la paura del tempo. Un suo amico e pittore, Antonio Caldarera, nella lettera ad un compagno in comune col poeta, racconta che al suo funerale molti, tra amici e conoscenti, erano presenti, ma nessuno di loro piangeva, quasi a dimostrazione della effimera solidità dei rapporti che pure aveva stretto: «Voleva bene alla vita! Al cimitero, la bara non entrava nel loculo e a me è sembrato che mi volesse dire: “Antonio a momenti ero sepolto”» (P. Bruni, Omaggio a Carrieri: tarantino d’Europa, p. 57).

Le strade della libertà per Carrieri, alla fine della sua ultima giornata, sono state una condanna, eppure le uniche che evidentemente si sentiva capace di percorrere. È per questo che mi consola e mi rattrista – proprio come la sua poesia – l’idea di immaginarlo solo nel suo letto d’albergo di Boulevard Raspail, mentre si spengono una ad una le sue vite, rallentano fiochi i suoi passi, si chiudono malinconici i suoi cento occhi; e finalmente trova casa, per la prima volta, quel suo affannato cuore, nella tenerezza di una carezza materna.


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