Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica di Arthur W. Frank
Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica di Arthur W. Frank
di
Maria Immacolata Ventola
Narrare significa
sempre, a mio avviso, esercitare una forma di controllo, di auto-controllo su
ciò che viene narrato: una sorta di necessità intrinseca all’essere umano, la
cui condizione è il perenne stato di fragilità e insicurezza. Una fragilità
che, in alcuni casi, come quello della malattia, può diventare impotenza: ecco
che la costruzione di una storia, nella situazione in esame, diventa prima di
tutto una forma di controllo della malattia. Ma narrarsi significa anche
riprendere il controllo su tutta una serie di narrazioni della nostra malattia,
tutte diverse, che abbiamo dovuto ripetere a parenti, colleghi, professionisti
della salute, di volta in volta fornendo dettagli diversi. Insomma, narrare ci
permette di rimettere insieme i pezzi, di avere un quadro più chiaro di noi
stessi.
Ma narrare e
aprire la narrazione al grande pubblico significano anche passare sotto il
vaglio dell’editing e dell’approvazione del mercato, che devono garantire la
consumabilità del prodotto. Anche le narrazioni di malattia devono compiere
questo passaggio obbligato. Editare un testo significa necessariamente
comprometterne la veridicità.
Ecco ciò che ho
pensato mentre leggevo le pagine di questo saggio, soprattutto perché si tratta
di narrazioni profondamente personali.
Poi, però, Frank
mi ha sorpresa, scrivendo che «la verità non sta solo nell’esperienza fatta, ma
anche in quella che si fa scrivendo e pubblicando» (Arthur W. Frank, Il
narratore ferito. Corpo, malattia, etica, Einaudi, Torino, 2022, p.24) e,
in fondo, siamo costretti ad ammettere che nessuna verità è mai oggettiva ma,
nel caso di storie di malattia, addirittura: «le storie più sono ricostruite,
più fanno venire a galla un desiderio potente e autentico di raccontare, come
se la narrazione fosse una versione corretta dell’esistenza» (Ivi, p.30)
- aggiungerei, come se la narrazione potesse correggere la propria
esistenza, darle finalmente un senso.
Insomma, il
messaggio è chiaro e potente: bisogna imparare a vivere attraverso le storie,
indipendentemente dalla loro verità; avere fede, quasi fossero un testo sacro o
un racconto magico popolare; sentirne il mistero di fondo, farsi trasportare da
esso, senza porsi troppe domande: in poche parole, tornare a credere al potere
taumaturgico dei racconti.
La narrazione
della malattia e, in particolare, la narrazione di un corpo malato è inserita
da Frank nella condizione postmoderna, in cui oggi tutti noi siamo immersi. L’autore,
infatti, a partire da una metafora di Susan Sontag (S. Sontag, Malattia come
metafora, nottetempo, Milano, 2020, p.13), parla di «società della
remissione», per cui, oggi, sempre più persone perdurano nello stato di
malattia, in una sorta di terapia permanente. La patologia, cronicizzandosi,
può diventare una vera e propria compagna di vita e, aggiungo, spesso non solo
le terapie si prolungano nel corso di tutto l’arco di vita, ma diventano un
mero palliativo, una consolazione verso un preludio che è già segnato. Mi
chiedo, pertanto, se non sia necessario, oltre che fornire delle narrazioni
collettive utili a rendere più lieve la permanenza nel «regno degli infermi»
(Ivi, p.13) e a far familiarizzare il malato col proprio status –
soprattutto sociale -, raccontare la malattia in termini diversi, come se essa
non fosse più l’evento annientatore di vita, della nostra vita, ma parte
dell’esistenza: non una “sfiga” che ci piomba addosso ma un’opportunità, al
pari di tutti gli altri imprevisti e ostacoli della nostra quotidianità;
insomma, qualcosa che ci identifica come sì, diversi dagli altri e forse pure
“sfigati”, ma che può diventare la nostra unica caratteristica, il nostro sigillo
di autenticità. Essere malati non può, secondo me, ridursi a diventare mera «comunità
del dolore» (Il narratore ferito, p.37). Per questo, mi pare
riduttivo paragonare l’esperienza di malattia ad un viaggio, il tipico viaggio
dell’eroe (tra l’altro usuale espediente narrativo delle tecniche di scrittura
postmoderna) che deve cambiare il protagonista attraverso un percorso di
rinascita, in cui la malattia si configura come dono, riducendo la contingenza
della vita umana a tappe e obiettivi fissi. Non sempre è così; non sempre la
malattia ci cambia; non deve per forza essere utile. A volte gli eventi ci
accadono e basta e vanno vissuti in quanto parte di una vita umana, che per
definizione stessa è imprevedibile. Se è vero che la malattia rappresenta «un’interruzione
nel corso dell’esistenza, un’interruzione non richiesta» (Ivi, p.58),
qualsiasi evento drammatico interrompe continuamente la nostra vita: la
ridisegna e ci pone di fronte ad un presente diverso rispetto a quanto avevamo
programmato nel passato e ad un futuro tutto da riprogrammare. Con questo, non
voglio sminuire la sofferenza del corpo malato, le stigmatizzazioni cui i
malati sono sottoposti, la paura e l’incertezza per il futuro, ma solo
sottolineare che la loro condizione non li rende diversi da qualsiasi altra
condizione di fragilità che, in quanto esseri umani, tutti siamo chiamati ad
attraversare, ognuno con le proprie interruzioni ed è proprio questo ciò che ci
rende uniti e meno diversi gli uni dagli altri.
Temo, insomma, che
potremmo essere di fronte ad una moda narrativa, non solo passeggera, ma che
addirittura potrebbe ridurre questi tipi di narrazione ad un ripiegamento
narcisistico dell’autore, una sorta di autocelebrazione.
Ciò che, invece,
mi pare assolutamente strepitoso è l’attenzione che viene riservata al corpo
malato, come se la narrazione procedesse dal corpo malato, cui finalmente viene
restituita piena potenzialità: il corpo è infatti un “sistema primitivo”, nel
senso che “arriva prima” e si esprime con un suo proprio linguaggio, che
spesso la letteratura postmoderna, tutta incentrata sull’interiorità, non sa o
– meglio - ha dimenticato. Il corpo narra continuamente di sé e attraverso di
sé percepisce il mondo circostante: gli dà forma, colore, odore, struttura,
sapore, calore, prima, di gran lunga prima che il linguaggio articolato riesca
ad esprimerlo: il corpo è, forse, il mezzo espressivo e, oserei dire,
letterario, più potente che possediamo. Credo che Frank, intenda dire proprio
questo quando scrive: «Il corpo supera qualsiasi definizione, qualsiasi
rivendicazione: è al di sopra del linguaggio. La piena cognizione, l’ideale di
una coscienza che ha il predominio sull’esperienza, pare impossibile. Il corpo
è sempre di più. Ecco perché, per ritornare alla questione onnipresente del
desiderio, vuole di più» (Ivi, p.141).
Di particolare intensità
sono le pagine dedicate alla «pedagogia della sofferenza» (Ivi, p.146), forse
perché mi toccano in prima persona e perché finalmente aprono alla sofferenza
come a «una forma di sovrabbondanza» (Ivi, p.149) e quindi, considerano
la malattia come qualcosa in più, non nel senso di superfluo ma di
arricchimento perché solo così la narrazione può diventare una forma di «responsabilità
estesa» (Ivi, p.148), attraverso la relazione di cura che, in quanto
relazione, è reciprocità ossia è mossa «da una solitudine in cerca di comunione»
(Ivi, p.154): è la
consacrazione
del proprio corpo all’altro, perché in tale reciprocità la malattia intesa come
eccedenza va a colmare la carenza di un altro. Non si tratta più di una
relazione di potere, ma di carità: il corpo sano si fonde col corpo malato, che
nella cura restituisce a sua volta cura verso i bisogni di chi se ne occupa.
Tuttavia, ancora
una volta, ci troviamo di fronte ad una realtà spietata, che deve fare i conti
col capitalismo e che nel sistema sociosanitario riflette «una società
interessata prevalentemente a stoccare gli individui indesiderati, spendendo il
meno possibile» (Ivi, p.172).
Ecco che quindi
torno a chiedermi, e a chiedervi, se queste narrazioni possano davvero
competere con una società che capitalizza persino sul dolore e sulla sofferenza;
se l’etica narrativa, così come ci è prospettata da Frank, possa davvero
modificare non solo il rapporto medico-paziente, ma il modo in cui il medico
deve mediare tra azienda - e quindi interesse economico della stessa - e il
bisogno di sentirsi visto del paziente.
Insomma, se il sé
va in pezzi, in quanto si trova a dover mediare tra mente e corpo, tra messaggi
di cura e segnali di dolore e se l’opera di ricostruzione è possibile solo
nella relazione terapeutica, è evidente che il malato viva una situazione di
forte contraddittorietà, tra la paura di consegnare il proprio corpo a persone
che agiscono a «responsabilità limitata» (Ibidem) e la
consapevolezza che comunque nessuno può portare la nostra “croce” per noi, per
dirla attraverso la metafora biblica.
Se è vero che la
narrazione e l’ascolto pongono rimedio alla disintegrazione del sé, se è vero
che i narratori feriti cercano di farsi coraggio e di darne agli altri, è
possibile un passo superiore, un passo verso la realtà ossia fare in modo che
la medicina metta in pratica un’assistenza che sia per l’altro, al di là della
produttività economica.
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