Quando la distopia incontra la realtà

Quando la distopia incontra la realtà

di Donata Martellotta

Ogni buon libro non smette mai di suggerire qualcosa di nuovo: è quello che succede (ri)leggendo La peste di Albert Camus dalla nostra particolare visione storica. 

Sia messa agli atti la seguente premessa: è molto doloroso immergersi nella città algerina di Orano scoprendo che ciò che il filosofo scrittore ha immaginato nel 1947 assomiglia ad una profezia. Pagina dopo pagina, sgorgano i dubbi, le domande, le paure e le scelte azzardate dei duri anni di proliferazione del virus COVID-19: infatti, come i cittadini di Orano escono traballanti da un’epidemia di peste, noi siamo sopravvissuti ad un’epidemia globale.

Come ogni creazione distopica, anche La peste lascia un messaggio. Chi scrive quest’articolo pensa che sia la fragilità nella costruzione di una comunità, che passa attraverso una buona comunicazione. Il seguente commento si propone di analizzare proprio quest’ultimo punto.

Procedendo per cerchi concentrici, macroscopicamente i residenti in Italia sono parte della comunità nazionale. Per aggregare i quasi sessanta milioni di persone che popolano il nostro Paese, una buona tattica è lo sfruttamento dei mass media. In una situazione caotica in cui si sta «distanti oggi per abbracciar[si] con più calore domani» (On. Giuseppe Conte, conferenza stampa a Palazzo Chigi, 12 marzo 2020), i cittadini di Orano, come noi, sono ben informati su ciò che sta succedendo tramite i giornali; sempre come noi, sono soggetti a dei bollettini quotidiani (cui dedicano addirittura un giornale specifico, il Corriere dell’epidemia) e, alla nostra stessa stregua, sono storditi dai numeri crescenti perché, come riflette il dottor Rieux, «Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando hai fatto la guerra, sai a stento cosa sia un morto. E poiché un uomo morto ha un peso solo se qualcuno l'ha visto morto, per l'immaginazione cento milioni di cadaveri disseminati nella storia sono soltanto fumo» (A. Camus, La peste, Bompiani, Milano, 2020, p. 46). Ed infine, come i sottoscritti, si assuefanno a tali notizie, che diventano a tal punto routine che l’On. Claudio Borghi chiede - si spera - retoricamente: «Voi avete notato che per far sparire il Covid è bastato non fare più l’assurdo bollettino quotidiano, vero?» (Tweet, 30 gennaio 2023).

Lasciandosi andare alla forza centripeta, tutti in Italia si collocano in una determinata regione: in questo caso, la Puglia. In tale livello, i canali di comunicazione sono stati dominati dalla decisa fermezza del Presidente Michele Emiliano: sarà scolpito ancora a lungo nella memoria dei pugliesi il suo appello diramato a mezzo social verso i residenti fuori regione a restare lontani e a non farsi prendere dal panico. Alle 2.31 dell’8 marzo 2020, egli scrisse: «Vi parlo come se foste i miei figli, i miei fratelli, i miei nipoti: fermatevi e tornate indietro. Scendete alla prima stazione ferroviaria, non prendete gli aerei per Bari e per Brindisi, tornate indietro con le auto, lasciate l’autobus alla prossima fermata. Non portate nella vostra Puglia l’epidemia lombarda, veneta ed emiliana scappando per prevenire l’entrata in vigore del decreto-legge del Governo. State portando nei polmoni dei vostri fratelli e sorelle, dei vostri nonni, zii, cugini, genitori il virus che ha piegato il sistema sanitario del nord Italia. […] So cosa state provando. Ma dovete essere lucidi. Questo esodo non aiuta voi e fa solo male, tanto male a chi in Puglia vi aspetta e vi ama» (Michele Emiliano, Facebook, 8 marzo 2020).

Tramite la geolocalizzazione, siamo un puntino in una determinata città: io sono nel cielo stellato di Bari. I canali mediatici di questa piccola realtà sono stati inondati dalla tenera mestizia del Sindaco Antonio Decaro, ridotto al pianto mentre camminava per la città deserta allo scoccare del coprifuoco (video, Facebook, 11 marzo 2020), che come un padre condivideva con i figli-cittadini la sua quotidianità per rassicurarli sul non aver abbandonato il timone sulla città e che li rimproverava se trasgredivano alle regole (video, Facebook, 13 marzo 2020).

L’ultima comunità che desidero analizzare è quella di cui la maggior parte degli scriventi su questo blog fa parte, quella universitaria. Negli anni della pandemia, abbiamo visto infittirsi le comunicazioni del Magnifico Rettore dell’Università degli Studi “Aldo Moro” che sono diventate molto più personali e toccanti, di sostegno e incoraggiamento. Il prof. Stefano Bronzini invitava in ogni sua e-mail alla pazienza, scriveva di «lontananza innaturale» (e-mail, 10 aprile 2020) e si scagliava contro il regime delle fake news esortando a ricordare che «Noi siamo l’università, ovvero un’istituzione di ricerca e formazione» (e-mail, 4 marzo 2020). Soprattutto, rifletteva così: «Mutare il nostro modo di vivere significa anche cambiare il nostro vocabolario. Un vero e proprio giro alla rovescia: oggi stare lontano dagli altri significa stare vicini agli altri» (e-mail, 10 marzo 2020).

È, difatti, una questione di linguaggio: come sostenne lo scrittore britannico Aldous Huxley (Words and Behaviour, 1936), è importante dare il giusto nome alle cose per capirle in quanto pensare correttamente significa comportarsi in modo moralmente accettabile («To think correctly is the condition of behaving well»). Per tale motivo, l’équipe medica di Orano esita a definire tramite un nome la malattia che sta consumando i corpi dei cittadini, tuttavia la realtà galoppa veloce rispetto all’indugio scientifico; così, Rieux si infervora: «Se non viene fermata, al ritmo di diffusione attuale la malattia rischia di uccidere mezza città in meno di due mesi. Perciò è irrilevante che la chiamiate peste o febbre della crescita. Ciò che importa è che le impediate di uccidere mezza città» (La peste, p. 58). 

Chiamare le cose con il loro nome non è soltanto rilevante ai fini etici, ma permette anche di mettere in moto la produzione di protocolli speciali per una situazione d’emergenza da parte della macchina burocratica. Il coordinamento tra due mondi così diversi come quello dello Stato e quello della scienza non è affatto semplice in quanto entrambi hanno dei linguaggi e dei metodi codificati completamente incompatibili: immediati e decisi il primo, malleabili ed euristici il secondo. Così, si creano dei cortocircuiti che possono costare la vita: ad Orano gli uffici pubblici continuano a lavorare «per il semplice motivo che il suddetto ufficio era previsto per tali funzioni» (Ivi, p. 120); in Italia si sono accumulati ritardi che ad oggi sono oggetto di esame da parte della Procura di Bergamo e del Tribunale di Roma, che hanno aperto l’inchiesta Covid lo scorso marzo 2023. In particolare, a sostegno dell’incompatibilità tra le due sfere, vi è l’intercettazione di una conversazione tra l’allora portavoce del Comitato Tecnico Scientifico dott. Brusaferro e l’allora Ministro della Salute On. Roberto Speranza in cui, mentre il primo lo informava di dati lievemente positivi, il secondo insisteva: «Dobbiamo mettere paura per imporre le restrizioni. Conviene non dare troppe aspettative positive» (la Verità, p.1, 12 marzo 2023). A corredo della notizia: «[I burocrati] Sono privi di immaginazione. Non sono mai all'altezza dei flagelli, loro. E immaginano soluzioni che sono buone a stento ad affrontare un raffreddore» (La peste, p. 136).

Sembra fondamentale mettere in rilievo, stavolta senza commento, un’ultima somiglianza con gli abitanti di Orano che rende ognuno di noi colpevole in qualche misura: la distorsione del pensiero di essere nati nella parte giusta del mondo. «[Grand] Sapeva che era un’idea stupida, ma non riusciva a credere che la peste potesse davvero diffondersi in una città in cui si potevano trovare modesti impiegati che coltivavano rispettabili manie, o per meglio dire non riusciva a collocare queste manie in mezzo alla peste e riteneva quindi che in definitiva la peste non avesse un futuro fra i nostri concittadini» (Ivi, p. 55).

Per concludere, una nuova comunità è possibile: serve solo immaginazione.

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