L’uomo allo specchio: il racconto del male di Albert Camus

 L’uomo allo specchio: il racconto del male di Albert Camus

di Ileana Chirico

La peste di Camus, pubblicata nel 1947, è la storia di un’epidemia, - o per meglio dire - la cronaca di un’epidemia che si abbatte sulla tranquilla cittadina di Orano, nell’Algeria francese.

Le prime vittime sono i topi, destinati a rivoltarsi per le strade di Orano, morenti e infetti: inizia così la vicenda di quella che si rivelerà essere una tremenda pestilenza, che porterà con sé separazione, paura e solitudine.

Tuttavia, La peste non è solo il racconto di un episodio della storia o un suo breve excursus: è l’oggetto unico e fondamentale della narrazione, potente allegoria di ogni male. A raccontarla è un narratore in terza persona, che tenta, fin dall’inizio, di essere il più distaccato possibile per riservare a noi lettori una vera e propria cronaca, che sia “testimonianza oggettiva” ed in quanto tale, di tutti.

Difatti, ad Orano non esistono destini individuali, ma solamente la “catastrofe”, collettiva e simultanea: la peste a poco a poco si scoprirà essere sul volto di tutti.

Il dottore Rieux, primo personaggio che conosciamo, (e che poi scopriremo essere il nostro narratore), è impegnato quotidianamente nella lotta alla violenta malattia e «non si tratta di eroismo, ma di onestà» (A. Camus, La peste, V. Bompiani, Milano, 1984, p. 244), un’onestà che per Rieux corrisponde, semplicemente, a fare il proprio mestiere, con dedizione e impegno.

Ma c’è chi, con grande vigore, risponde al propagarsi della malattia in modo del tutto diverso: Padre Paneloux, sacerdote gesuita, a poco tempo dall’inizio dell’epidemia, sicuro di poter rispondere di qualsiasi problema attraverso la fede religiosa, rivolge ai suoi fedeli una predica, in cui spiega che la peste «illumina il sentiero che porta alla liberazione, trasforma il male in bene» (Ivi, p. 190) e che questa è un flagello, inviato direttamente da Dio per punire gli uomini del male e delle sofferenze che hanno causato.

Eppure, anche un animo forte e convinto come il suo, cederà, qualche mese più tardi, ad una riflessione, forse più umanamente sentita e meno superba. La visione di un bambino che muore dinanzi ai suoi occhi, dilaniato dalle sofferenze della peste, lo porterà ad una seconda predica, ben differente dalla prima.

Ebbene, per Padre Paneloux, ci sono cose che si possono spiegare, ed altre che no, non hanno alcuna spiegazione. Fra quest’ultime vi è la morte degli innocenti, «non c’era nulla sulla terra di più importante della sofferenza d’un bambino e dell’orrore che tale sofferenza si porta con sé» (Ivi, pp. 292 e seguenti).

E allora cosa fare? Come poter colmare il profondo dissidio tra l’essere vicini a Dio e il non odiarlo totalmente per gli orrori che ha lasciato si compiessero?

«Fratelli miei, bisogna essere colui che resta!», così, sul pulpito, non si rivolge più ai suoi fedeli con il “voi”, bensì con il “noi”: «Bisognava soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare il bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di rimettersene a Dio, anche per la morte dei bambini, e senza cercare un personale ausilio.».

Padre Paneloux sceglie ancora una volta Dio, lasciando che il suo amore lo guidi in queste tenebre, “cancellando” la sofferenza e il dolore degli innocenti, poiché solo Lui può capirli, e renderli necessari.

Noi uomini il male non lo possiamo capire e lo dobbiamo solo accettare, continuando a camminare, dritto per dritto…

Ma chi non crede più in Dio? E chi non ci ha mai creduto? In questo caso, è ben difficile immaginarsi che la risposta di Paneloux possa essere riconosciuta.

Jean Tarrou, ora unito da un’intima amicizia con il dottor Rieux, gli racconterà della sua storia, di come egli, figlio di un magistrato francese, dopo aver guardato il volto di un uomo condannato a morte durante un processo, abbia preso la ferma decisione di rifiutare la carriera del padre e battersi per una giusta causa: fermare le condanne a morte.

In tal modo, sarebbe partito per l’Europa, ricercando, con fervore rivoluzionario, consensi per la causa. E rinunciando così ad “uccidere”, cioè, a “giudicare”: stare dalla parte delle vittime comporta l’astensione più totale dal giudizio. Eppure, anche questa rinuncia lo riporterà, più tardi, alla mesta consapevolezza che battersi per qualcosa di giusto comporta inevitabilmente il propagarsi continuo e inarrestabile del male: egli stesso, pur inconsapevolmente, ha firmato la condanna a morte di altri uomini, come infermiere volontario.

Allora, nessuno più è senza colpe: la peste, intesa come male sociale, (quel male che ti porta a decidere della vita di un altro uomo…), ha ora il volto di Jean Tarrou, così come di tutti gli altri uomini, quelli cattivi, e quelli che, come lui, disperatamente lottano contro la peste cercando difficilmente di liberarsene, di estirparla.

«Si può essere santi senza Dio?», è il quesito che Camus, per bocca di Tarrou, pone a noi che siamo dall’altra parte: per chi, come Jean, non crede in alcun dio, quale può essere la risposta a questa peste, che ciascuno di noi porta in sé?

Tarrou si asterrà, lascerà agli altri il compito di “fare la storia”, rinunciando così alla rivoluzione e svolgendo nel suo piccolo ciò che ritiene esser giusto: e in effetti per tutto il romanzo lo abbiamo visto accanto al dottor Rieux in soccorso delle vittime, organizzando le squadre di soccorso dei volontari.

E quando la peste termina? A quasi un anno dall’inizio dell’epidemia la quarantena è terminata, dei ratti morti non v’è più traccia, gli ultimi appestati cominciano a guarire, i festeggiamenti sono alle porte… che cosa ne rimane, se non il ricordo, la memoria e la conoscenza di ciò che è stato? L’insegnamento qui c’è? Può levarsi, da questo tragico racconto, un monito? Il narratore Rieux sa che la vittoria non è definitiva, che contro il terrore (e il riferimento al nazismo appena sconfitto è evidente) bisognava ancora combattere, che l’allegria ora nuovamente respirata è sempre e ancora minacciata…

Un finale a primo impatto pessimista, e che tuttavia, in modo profondamente ottimistico, cela la speranza di poter costruire qualcosa che possa evitare, ancora una volta, la distruzione della peste: un monito a non lasciar cadere nell’oblio ciò che è stato e a non lasciarsi sopraffare dal male altrui.

Un monito a non essere come Cottard, l’unico nel racconto di Camus ad aver tratto vantaggio dal flagello (e non a caso, l’unico su cui il narratore farà silenzio) e ad aver sperato che la peste non finisse “così presto”, per poter continuare ad essere un criminale senza conseguenze, libero per la città di Orano, con il proliferante bacillo della peste dentro di sé…

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