Il giacente non è improducente: Fernanda Romagnoli attraverso il saggio di Virginia Woolf "Sulla malattia"


Il giacente non è improducente: Fernanda Romagnoli attraverso il saggio di Virginia Woolf Sulla malattia

di Alessia Bruno

La terza antologia di poesie proposta in merito all’autrice Fernanda Romagnoli s’intitola La folle tentazione dell’eterno, attraverso la quale possiamo scoprire l’evoluzione di una poetessa considerata quasi sacrale: “quasi” perché la sua non è una poesia rivolta al sacro, all’Assoluto, a Dio, ma è rivolta, nella maggior parte dei casi, all’Io, quindi alla ricerca di se stessa persa a volte nell’incertezza della vita. Nella sua poesia troviamo sofferenza, dolore, la voglia di essere Altrove, eppure non parla mai esplicitamente della sua malattia, che probabilmente è una delle cause di questi suoi turbamenti. L’epatite accompagna la Romagnoli fin dal 1961 e la tedierà per tutta la sua vita, costringendola a numerosi ricoveri. Questa condizione, la condizione di malato, è ciò che accomuna Fernanda a Virginia Woolf, una donna che, come lei, affronta la sua malattia durante tutto l’arco della sua vita. La Woolf soffriva di atroci mal di testa e febbri improvvise, legate probabilmente alla depressione, all’angoscia oppure a un problema ai polmoni. Entrambe queste donne utilizzano la letteratura, una la poesia e l’altra la prosa, per affrontare il loro «spasimo pieno d’amore». Virginia Woolf affronta il tema della malattia e scrive di essa, non solo in questo saggio intitolato Sulla malattia, un saggio che, tra l’altro, le ha dato molte preoccupazioni poiché è stata costretta a scriverlo a letto, quindi nella condizione tipica del malato; sebbene la Romagnoli non parli direttamente della sua malattia, nelle poesie troviamo curioso come, in realtà, essa sia presente proprio tramite il tema del giacente (il malato, così definito dalla Woolf): come nel caso della poesia intitolata Telefono. In tale poesia Fernanda ci racconta come «Dal letto d’ammalata penso il cielo/sventolare sul melo che s’aprì», cioè di come lei, una poetessa e in quanto tale capace di farlo, immagina, pensa, il cielo che si trova sopra il melo che fiorisce (simbolo di vita). Soltanto il Poeta per Virginia Woolf può essere in grado di immaginare qualcosa, il Cielo, il quale ha un significato particolare per lei, così come per Fernanda, perché è l’elemento naturale che i giacenti possono fermarsi a osservare; gli eretti, i sani, corrono sempre verso la loro battaglia quotidiana e non possono avere il privilegio di soffermarsi a guardare il cielo che muta, cambia, forme e colori. Da sempre avvengono tali mutamenti, ma solo il giacente può arrestare il suo tempo e avere l’occasione di osservarlo.

Nella condizione di malattia spesso si richiede al medico o il medico prescrive solo il riposo, il letto, come se il malato non potesse far altro che questo: arrestarsi, non produrre più nulla per la società. La Woolf ritiene che nessuno vorrebbe sentire delle critiche o delle opinioni nate da una mente inferma, come se essa non fosse degna di far parte della società, come se il suo giudizio, il suo pensiero non fosse attendibile, eppure come ben manifestano entrambe non è così. Questo messaggio lo ritroviamo nella poesia di Fernanda Romagnoli dal titolo Per il poeta malato (probabilmente dedicata a Carlo Betocchi, intimo amico dell’autrice, nonché uno dei suoi primi sostenitori), dove l’autrice descrive un poeta che definisce «vecchio». Chiede al poeta cosa significhi «vecchio», quindi malato (poiché spesso associamo tale termine direttamente a uno stato di salute precario), «se gli occhi ridono buongiorno/ anche al peccato, anche alla malattia». Nonostante la malattia, infatti, il poeta tenta di raggiungere la penna sulla scrivania con la sua «serafica mano», «fra il colpo di tosse e il divano,/ con la vestaglia al petto/ raccolta», per contribuire ancora una volta alla costruzione della realtà. Il malato si sente spesso inutile e privo di possibilità nel partecipare alla vita quotidiana, ma queste autrici ci dicono esattamente il contrario. Riportando nelle loro opere sintomatologie comuni alle malattie più banali, come l’influenza, sottolineano come tutti abbiamo provato quelle sensazioni e abbiamo avuto paura di sprofondare nell’Inferno dell’infermità, come ci fa ben intendere la Woolf nel suo saggio. Tutto questo per sottolineare che la precarietà dell’esistenza non riguarda soltanto i giacenti, coloro che sono costretti a restare in una posizione orizzontale, ma riguarda anche gli eretti, che pur assumendo una posizione verticale e apparentemente privilegiata, sono ugualmente soggetti alla Natura, che prima o poi riprenderà ciò che è suo. Anche Guido Gozzano, malato fin da giovane di tisi, come descrive principalmente nelle ultime quattro strofe della poesia La via del rifugio, ritiene che la Morte sia l’unica cosa Vera della vita e che raccogliere un quadrifoglio o un trifoglio (simboli di fortuna e gloria poetica) mentre è steso, giace dunque, su un prato borghese, sia inutile. Lui rinuncia a ogni possibile costruzione di sé nel futuro perché malato e soprattutto si descrive come giacente, come una persona inferma che non può far altro che osservare il mondo in quella condizione, poiché nessuno può dar credito a un malato.

Dunque, la condizione di infermità sembra quasi un privilegio, un dono, che non porta ad avere qualcosa in meno rispetto agli eretti. Inoltre, il voler riportare sintomatologie che almeno una volta nella vita tutti abbiamo avuto può avere un significato latente e profondo: nessuno è sano, tutti abbiamo anche un solo piccolo problema di salute che ci fa essere giacenti agli occhi della società e ai nostri occhi. La malattia è l’ordinario, la sanità un ideale. Ed essendo tutti giacenti, comunque contribuiamo alla società, comunque siamo parte di questo mondo attivamente e non passivamente.

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