Cancro: chiamalo con il suo nome
Cancro: chiamalo con il suo nome
di Donata Martellotta
Malattia come metafora, pubblicato da Einaudi nel 1979, per la traduzione di Ettore Capriolo, con annesso un ulteriore saggio dal titolo AIDS e cancro (Illness as Metaphor, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1978; AIDS and Its Metaphors, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1989) è stato il modo di Susan Sontag di rielaborare la sua personale malattia: alla scrittrice (1933-2004), infatti, all’età di 42 anni era stato diagnosticato un tumore metastatico al seno e quando ella fu dichiarata guarita, decise di riportare su carta le riflessioni che tale esperienza totalizzante le aveva fatto scaturire.
Come
ella stessa scrive in una nota introduttiva al saggio, «Io intendo descrivere
non la realtà dell'emigrare nel regno della malattia e del viverci, ma le
fantasie punitive o sentimentali inventate su questa situazione» (Ivi, p. 8):
perciò, un vero e proprio attacco al pensiero comune, nient’affatto un libro
consolatorio per malati come lo era stata Sontag stessa. Ella riesce,
costruendo un mosaico fatto di scheletri fossilizzati da secoli di
superstizioni e non detti, a ridare dignità alla malattia perché «La mia tesi è
che la malattia non è una metafora, e
che la maniera più corretta di considerarla - e la maniera più sana di esser
malati - è quella più libera da pensieri metaforici e ad essi più resistente.
Tuttavia, è quasi impossibile prendere residenza nel regno dello star male
senza essere influenzati dalle impressionanti metafore con le quali è stato
tratteggiato. È a una delucidazione di tali metafore, e a una liberazione da
esse, che io dedico questa indagine» (Ibidem).
Si
procede per immagini e si prendono come capri espiatori della malattia il
cancro e la tubercolosi. Poiché la tbc è stata elevata addirittura a male
desiderabile dal filone ottocentesco del Romanticismo ed è stata – perlomeno
nei Paesi più industrializzati del mondo – debellata, questo articolo
rifletterà sul cancro, il brutto anatroccolo del nostro secolo. Per definirlo,
Sontag comincia dalle fondamenta: l’etimologia di cancer (latino; greco: καρκίνος), secondo il grande luminare
bizantino Galeno (II sec. d.C.), rimandava al granchio, in quanto le tumescenze esterne facevano
pensare alle grosse chele dell’animale da spiaggia; tuttavia, ben presto essa
venne travisata e del granchio si colse l’immagine del movimento strisciante,
ugualmente sgradevole come quello delle metastasi che si espandono all’interno
del corpo umano malato. L'Oxford English
Dictionary fornisce come primo significato figurativo della parola: «Tutto
ciò che corrode, corrompe o consuma lentamente e segretamente». E proprio sul
segreto si insiste particolarmente, a partire dalla legislazione di tutti i
Paesi dell’emisfero ricco del pianeta: in America, «il più grande ospedale del
cancro del Paese spedisce ai suoi pazienti esterni le parcelle e le normali
comunicazioni in buste senza indicazione del mittente, nell’ipotesi che
vogliano tener segreta la malattia ai propri familiari» (Ivi, p.10) ed è stata
istituita addirittura una legge federale, il “Freedom of Information Act”, nel
1966 che ospita un paragrafo in cui solo il cancro viene citato tra le malattie
per la cui divulgazione si rischia una «violazione ingiustificata della privacy
personale» (Ivi, p.11); in Francia e in Italia, «è ancora regola che i medici
comunichino la diagnosi di un cancro ai familiari del paziente ma non al paziente
stesso» (Ivi, p.10).
Segreto
e consunzione, dunque. Il dott. Wilhelm Reich (1897-1957) scrisse: «Se la mia
opinione sul cancro è corretta, tu ti arrendi, ti rassegni, e poi ti consumi»
(Ivi, p. 22). Proprio l’arresa prevista da Reich fa intendere quanto sia insita
nella mente umana l’idea della guarigione come una guerra da combattere contro
la malattia, che può avere come vincitore l’indomito guerriero (si pensi
all’ultimo notissimo malato che ha “lottato” a lungo, l’atleta Siniša
Mihajlović, e ai numerosi articoli scritti sul suo dramma infarciti di metafore belliche) o il cancro,
che arresta di colpo la sfida.
Il cancro come tumescenza ha dato vita ad
una metafora che ha avuto altrettanta risonanza: è stato interpretato come una
«gravidanza demoniaca» (Ivi, p. 14).
Terribile è la sentenza icastica di San Girolamo: «Altri con il suo
ventre gonfio è gravido della propria morte» (Alius tumenti aqualiculo mortem parturit; Ivi, p. 14).
Al
tumore viene addebitato anche un altro grande difetto: l’infelicità. Galeno
rassicurava le donne solari e gaudenti perché esse sarebbero state certamente
risparmiate dalla malattia al seno in quanto «sanguigne», al contrario delle
signore «malinconiche»; tuttavia, se tale congettura fa sorridere pensando ad
un medico dell’antichità classica, sorprende che il dotto Thomas Paynell abbia
dichiarato nel 1528 che «Un cancro è un ascesso malinconico che divora parti
del corpo» e spaventa che nel 1885 «un medico di Boston informava ‘quelle che
hanno tumori al seno apparentemente benigni del vantaggio di essere allegre’»
(Ivi, p. 44).
Il
dott. Georg Groddeck (1866-1934), padre della medicina psicosomatica, fu fin
troppo duro verso chi già viveva una condizione di debilitazione fisica:
secondo lui, «È il malato stesso a
creare la propria malattia, è lui la causa della malattia, non abbiamo bisogno
di cercarne altre» (Ivi, p. 39). Da questo assunto, si può forse spiegare
l’allusione del dott. Reich che, raccontando del suo maestro Sigmund Freud
(1856-1939), scrisse che era « ’molto bello [...] quando parlava. Ma poi la
cosa lo colpì proprio lì, alla bocca. È stato allora che ho cominciato a interessarmi del cancro’. Questo interesse
condusse Reich a proporre una sua versione del legame tra una malattia mortale
e il carattere di coloro che ne vengono umiliati» (Ivi, p. 35). D’altra parte,
« ’L’ideale della perfetta salute, - scriveva Novalis in un frammento del
periodo 1799-1800, - è interessante solo scientificamente’; veramente
interessante è la malattia, ‘che appartiene all’individualizzante’» (Ivi, p.
28).
A
questo punto, in conclusione, due ultime questioni etiche vanno accennate sul
racconto della propria esperienza nel «lato notturno della vita» (Ivi, p. 8).
Innanzitutto,
il linguaggio - il vero fine per cui Sontag ha scritto il saggio in analisi. L’amara
riflessione sul fatto che in questi ultimi secoli di Storia «abbiamo il senso
del male ma non possediamo più il linguaggio religioso o filosofico per
parlarne con intelligenza» (Ivi, p. 67) deve spingere tutti a cooperare affinché
una corretta narrazione sia finalmente ristabilita.
Infine,
che di malattia ne parli chi ne è colpito è comunemente accettato perché, con
ogni evidenza, i malati posseggono più dati rispetto alla gente sana; tuttavia,
decidere di scrivere di malattia solo nelle succitate occasioni pare a chi
scrive una pesante mancanza di senso di comunità. Insomma, la malattia è
esclusa dalla nostra visione finché “occhio non vede, cuore non duole”.
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