Morte estetica e decadente: una lettura di La morte a Venezia
Morte estetica e decadente: una lettura di La morte a Venezia
di
Gianluca Cannillo
Spesso
quando ci si accosta a un testo narrativo, che non sia esplicitamente poetico,
si cerca di indagarne la struttura, la poetica del dire, la luce che traspare dalla
sfera semantica, facendo scorrere in secondo piano la facies meramente
estetica. Questa dimenticanza è da evitare nei confronti del racconto La
morte a Venezia. L’opera, pubblicata nel 1912, si colloca nel clima
decadente dell’Europa primonovecentesca; l’implicazione è presto suggerita: la
veste estetica si fa foriera di altro significato. Indagando dunque il
significante del testo, emerge una chiara visione antitetica rispetto al nucleo
principale del racconto: alla morte, all’apoteosi della dissoluzione, alla
putredine dei canali veneziani si oppone una scrittura limpida ed elegante,
rasserenata. L’immagine che viene subito in mente è quella iconica del San
Sebastiano, del martire associato al cupio dissolvi: un dolore che non
straccia le vesti, ma che si sublima nel desiderio di morire.
La
novella è stata pubblicata nel 1912, in un clima europeo, come si è già
definito, decadente. In Germania però si affacciano in quel decennio i nuovi
fermenti del clima avanguardistico e delle dinamiche del cabaret che
costituiranno la novità dell’estetica letteraria e non solo. La morte a
Venezia sembra collocarsi come un ottimo baluardo in un contesto di
confine, quasi a voler nuovamente esplicitare un’ulteriore, se non ultima,
parola sull’estetica decadente.
Il
testo di Thomas Mann si intitola Der Tod in Venedig, esattamente La
morte a Venezia. Si tratta di un titolo semplice, icastico, che concentra
in poche parole il fulcro di tutta la narrazione: non la morte di Gustav, non la
sua malattia, ma la morte di una città, la morte di Venezia. Se il titolo è portatore
di senso, se è effettivamente il cappello che dà significato alla narrazione, allora
l’intero racconto va letto come l’agonizzare di una città e quindi di una
società. Venezia è l’emblema perfetto di quanto detto in precedenza: è essa stessa,
per statuto urbanistico e storico, alla Verlaine «l’Impero alla fine della
decadenza». È una città-San Sebastiano: languisce, affonda, è soggetta alla
mutevolezza atmosferica, ma si staglia bellissima e si fa iconica. La Venezia
di Mann non è quella di Marco Polo, non è quella delle narrazioni consuete: non
sono le sue vie, i suoi canali e le sue calli i segni della mutevolezza del
destino, della possibilità e della presenza di Mercurio o della fortuna. Si
direbbe, con le parole di una canzone che si sono fatte proverbiali, che questa
Venezia sia ‘triste’. Triste perché visivamente provata da una malattia che la
consuma dall’interno. Il fascino si fa carezzevole, pacato: il clima lagunare
sembra offrire sollievo, così come gli stessi accostamenti linguistici di Mann.
Se
si presta attenzione, l’epidemia di colera che arriva Venezia è quella del
colera ‘asciutto’: «in tale eventualità il corpo non riusciva neppure a
espellere l’acqua secreta in abbondanza dai vasi sanguigni. In poche ore il malato,
insecchitosi, soffocava per il sangue divenuto viscido come la pece, tra crampi
e lamenti rauchi» (T. Mann, La morte a Venezia, Garzanti, 2016). L’immagine
è immediata: come il sistema cardiovascolare, anche Venezia si presenta al
collasso. L’acqua secreta è quella presente nei canali, in quest’acqua le
imbarcazioni si muovono lentamente, come se fossero invischiate nella pece –
elemento usato del resto come impermeabilizzante delle gondole – e le stesse si
fanno metafora a loro volta delle casse funebri. Ad una Venezia bellissima si
sovrappone una in procinto di morire e ai lettori non resta che osservarla con
un certo sentimento di fascino quasi da necrofili. È lo stesso sentimento che
prova Gustav verso Tazio e verso Venezia. Non c’è morale e non c’è salvezza,
non c’è ipotesi di riscatto e non c’è futuro: c’è il languire, il consumarsi,
lo struggersi d’amore in un’immagine meramente narcisistica e sadomasochistica.
Gustav
potrebbe essere un eroe, potrebbe diffondere la notizia della presenza del morbo
nel paese, potrebbe, perlomeno, salvare Tazio dall’incombere dei vibrioni
colerici, ma, se così fosse, questo racconto sarebbe solo la narrazione di una
vita giusta ed etica. Qui il tutto è diverso: siamo di fronte a una novella
estetica, ma comunque capace di fare di questo ideale esteriore un discorso
critico. Gustav muore solo, il suo cadavere viene trovato sulla spiaggia solo
dopo il decesso: questo ideale estetico non è stato in grado di essere
condiviso e posto in rete. Una morte triste, da uomo solo, con una vista
sfumata dell’oggetto amato, ma che non porta con sé il lutto, il pianto e la
sofferenza dei cari. Ma forse anche la morte di un uomo solo, capace di morire
nel silenzio, con una morte ‘degna’, che non passa per le viscere e che non
svuota il corpo dall’interno.
Il
tutto sembra quasi coinvolgerci in una riflessione: da quale sentimento si
costituisce un’opera d’arte? Quale stato sensazionale muove le viscere,
l’intelletto e la penna di uno scrittore? Sembra quasi che Mann ci faccia
leggere nelle vicende di Gustav un’ipotesi: lo stato di sofferenza, morte e
dissoluzione è da considerarsi necessario alla produzione artistica, sia che
questa sia mediata dalla catarsi della forma, sia che appaia cruda, organica e
infernale. Occorre chiedersi quanto corretta sia questa ipotesi e quanto,
nell’intera storia della letteratura occidentale, siano presenti elementi a
favore di questa tesi.
Ma,
se è vero quanto dice Proust, cioè che «ogni lettore, quando legge, legge se
stesso», forse questa è solo una lettura di me stesso e del mio
vagheggiamento della letteratura.
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