La Signora delle camelie: tra leggi sociali e mali morali
La Signora delle camelie: tra leggi sociali e mali morali
di Sara Mansueto
La
Signora delle camelie appartiene alla diversificata e
appassionante tradizione del romanzo francese dell’Ottocento, a metà strada tra
romanticismo e realismo.
Quella
di Alexandre Dumas è una penna talmente coinvolgente che il lettore a momenti non
può fare a meno di empatizzare con questo o con l’altro personaggio.
Fondamentale, da questo punto di vista, è la tecnica – a noi italiani molto
cara – del racconto nel racconto: la voce narrante incrocia i dolori e le
emozioni in prima persona del protagonista maschile della storia d’amore.
Le
vicissitudini dei due amanti sono condizionate dagli spazi e dalle leggi
sociali che ingabbiano i personaggi in ruoli prestabiliti, vite tristi e
predeterminate.
Lo
spazio vincola i protagonisti e controlla la loro vita: la città è un labirinto,
simbolo di smarrimento e confusione, una condizione intricata dalla quale è
difficile uscire; ma è anche teatro metaforico (non a caso, il teatro sarà lo
spazio di narrazione più frequente nel romanzo), luogo nel quale non è
possibile isolare la realtà dalla finzione.
La
campagna è invece la vita innocente e sincera, è tutto ciò che avrebbe potuto
essere e non è stato… è l’idillio che la vita reale non può essere.
La
società si insidia pericolosamente nella narrazione. Consapevole del suo ruolo,
travolge i personaggi con leggi non scritte, come nel caso della “vita
scandalosa” condotta da Armando al fianco di una prostituta, la quale eco,
raggiungendo la provincia, macchierebbe il nome di famiglia di un uomo d’onore.
D’altro canto, la società borghese intrappola Margherita: la malattia della
donna non può che regredire con la vita di eccessi e vizi alla quale è relegata
la mantenuta. Allo stesso tempo, questo ruolo è necessario per ripagare i
debiti.
È
proprio a questo punto che spazio e società si intrecciano: la condizione di
Margherita appena presentata è il labirinto al quale si accennava, che prende
forma proprio nella città. Il padre di Armando è l’incarnazione della realtà
borghese e cittadina che interrompe l’idillio campagnolo irraggiungibile.
Tra
lo scorrere degli eventi c’è un’altra canaglia che irrompe ogni volta che può: la
malattia. Il male fisico di Margherita, oltre a ridurre la donna in stati
tremendi, è una potente arma contro il benessere mentale e morale di chi le sta
a fianco. Armando, fin dall’inizio del racconto, dichiara con convinzione che
il suo amore e la vita che Margherita vivrebbe con lui possano garantirle la
guarigione. Ciò che l’uomo non ha valutato, offuscato dall’affetto e dalle sue
stesse insistenze, sono le sofferenze, morali e non, che questa storia d’amore
con una mantenuta gli ha provocato.
Dando
voce alle sofferenze di Armando si legge: «Sarà forse un’arsura della febbre
che mi divora, un sogno delle mie notti insonni, un prodotto del mio delirio» (A.
Dumas, La Signora delle camelie, A. Mondadori, Milano, 2006, pp. 39-40) ,
«Questo solo mi guarirà: bisogna che io la veda» (Ivi, p. 39).
E
dalle descrizioni del narratore: «Al rumore Armando indietreggiò come per una
scossa elettrica» (Ivi, p. 42), «Io osservavo Armando, temendo a ogni attimo che
le sensazioni da lui visibilmente compresse lo spezzassero […] guardava con
occhi fissi e sbarrati come di pazzo […] in preda a una violenta crisi nervosa»
(Ibidem), «Il tremito aumentò sino a un vero attacco di nervi» (Ivi, p. 44), «E
sentivo gonfiargli il petto, vedevo affluirgli il sangue agli occhi» (Ibidem).
Sembra
insomma che, come una malattia che progredisce incontrollabilmente, le angosce
e i mali del povero innamorato siano tramutate in una reale malattia. Ogni
passo citato descrive comportamenti e aspetti tipici di un infermo: gli stati
febbrili – che sono inoltre più volte citati nel corso di tutta la narrazione –
come sintomo principale, l’insonnia come conseguenza di particolari condizioni
psicologiche, i dolori lancinanti di alcune patologie che in medicina vengono
paragonati a delle scosse elettriche, nonché i continui riferimenti alle crisi
di nervi e alla pazzia, tale da definirlo quasi un caso psichiatrico.
Inoltre,
a confermare questa “diagnosi”, possiamo citare le parole del medico: «Ha una
febbre cerebrale, né più né meno, ed è una gran fortuna, perché credo, Dio mi
perdoni, che altrimenti sarebbe impazzito. Ora il male fisico ucciderà il male
morale» (Ibidem). La presenza stessa del medico è rilevante per ciò che si
intende dimostrare. Inoltre, Armando viene trattato come un paziente affetto da
una forma di male fisico, quale trasposizione di un male morale, forse più
grande. Viene dato anche un nome a questo stato: febbre cerebrale, quasi fosse
una reazione del corpo umano ad un rischio di impazzimento.
Giungendo
alle conclusioni, credo che questo aspetto ruoti attorno ad una considerazione:
i tentativi generosi di Armando si sono rivelati, a posteriori, inversamente
proporzionali al suo destino. Proponeva il suo amore come cura per la malattia
dell’amata; al contrario, è stato proprio questo amore a farlo ammalare di un
male morale, destinato a sfociare in uno fisico e mentale.
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